#2.1 Stereotipi

Un'introduzione. E perché non potevo fare a meno di parlarne.

#2.1 Stereotipi
Fronte: Famous professional photographer taking a portrait of a person. Sfondo: Photograph. Immagini generate dal motore AI Midjourney.

Eccoci all’inizio della serie che ci accompagnerà fino a fine anno!

Come per lo scorso ciclo, questa introduzione all’argomento e la conclusione saranno gratuite ed accessibili a tutti. Tutti gli articoli in mezzo saranno ad abbonamento, chi legge gratuitamente riceverà un anteprima di alcuni paragrafi di ogni testo.

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Anche a voi il primo di settembre da un po’ la stessa sensazione di Capodanno? Sembra di stare sulla soglia di un periodo nuovo, ma senza i postumi della sbronza e il panettone sullo stomaco.

Non è vero.

L’ultimo dell’anno in realtà io lo passo esattamente come tante altre sere, fuori da ogni tradizione. Ho utilizzato un cliché nel tentativo di connettermi più velocemente con voi, agganciandomi ad un’esperienza comune, forse. Perché di solito, in media, è così.

A volte è più facile trasmettere una sensazione attraverso un luogo comune (appunto perché è comune) che con tanti giri di parole. È a questo che, in soldoni, servono gli stereotipi. Poi ci sono anche quei cliché che si sono talmente radicati nei linguaggi di una cultura da restarci anche quando il messaggio che portano è obsoleto, fanno danni, unici portavoce di una realtà che non esiste, sempre, così come la descrivono. E qui mi fermo. Ci arriveremo con calma.

Termine di ricerca “prom couple” su Unsplash.
Termine di ricerca “prom couple” su Unsplash.
Mary Ellen Mark, Prom, 2012. Fonte: maryellenmark.com.
Mary Ellen Mark, Prom, 2012. Fonte: maryellenmark.com.
Mary Ellen Mark, Prom, 2012. Fonte: maryellenmark.com.

La sensazione di essere all’inizio di qualcosa di nuovo, invece, per me è vera. Voglio sfruttare questa energia per buttarmi in un argomento dove sicuramente sarà impossibile non pestare qualcosa di puzzolente. Pazienza, metto le scarpe brutte e mi avvio con lo stesso spirito con cui porto Kira a fare pipì nelle aiuolette intorno all’autogrill nel fine settimana nero di rientro dalle ferie1.

«Formulate le vostre tesi nella maniera più brutale, ché, quando l’epoca va in riposo e pone fine al canto, voi siete rappresentati solo in ragione delle vostre frasi. Ciò che non esprimete non c’è». Gottfried Benn, Invecchiare come problema per artisti. Microgrammi 12, 2021.

Da qui fino a dicembre parleremo di stereotipi e pregiudizi. Un anno fa non sarei stata in grado di infilarmi in nessun modo in questa conversazione. Anche limitandomi solo alla fotografia questo argomento si collega con TUTTO, con posizioni estreme e complicate, che a volte so di poter comprendere solo in parte o per niente. Mi terrorizza trovarmi in mezzo a questi discorsi, con quella sensazione di essere un po’ d’accordo con qualcosa, ma forse con qualcos’altro no. Non avere un’idea del tutto formata quando il resto del mondo sembra schierato nettamente. Ma con qualche manuale di psicologia sociale ed entrando in contatto con persone con più esperienza di me, la paura di farmi un’opinione mia e di esprimerla è un po’ passata.

Profilo Instagram @_saramedea, una delle conoscenze più preziose dell’ultimo anno.

Sapere come funzionano certe dinamiche mi ha aiutato a vederle anche nel mio lavoro e nella vita di tutti i giorni. Riconoscere questi meccanismi, anche quelli più subdoli e trasparenti, è il primo passo per poterne parlare e intervenire in maniera sensata, senza farci intrappolare in una rete di discorsi che fanno più danno che altro.

«In uno dei suoi passaggi più profetici Nietzsche parla di “un’era satura di storia”. “Un’epoca incorre nella pericolosa disposizione intima dell’autoironia, e da essa in quella ancora più rischiosa del cinismo», si legge nelle Considerazioni inattuali; un “carnevale cosmopolitico”, ovvero una spettatorialità distaccata, avrà sostituito la partecipazione e il coinvolgimento. È la condizione dell'Ultimo Uomo nietzschiano: colui che ha visto tutto, ma che proprio l'eccesso di (auto)consapevolezza condanna all'indebolimento e alla decadenza». Mark Fisher, Realismo capitalista. NERO, 2018.

Sembra di non far molto, è vero, allora piuttosto che far fatica meglio niente, che tanto non cambia nulla. Bé, no. L’influenza minoritaria funziona proprio così. Si chiama anche influenza senza potere perché la voce di minoranza non ha la forza di generare accondiscendenza, di fare in modo che tante persone accettino il pensiero senza proteste. Ma, con costanza, porta all’interiorizzazione di certi concetti e alla conversione. È un processo lento ma anche più stabile.

Digressioni a parte, le mie domande sono sempre tante e le risposte poche e confuse, ma il pensiero è forte. Nessuno è mai morto per aver pestato una cacca. Fa schifo, è imbarazzante, ma alla fine si pulisce.

Comincio facendo un po’ di ordine tra i concetti. Magari alcuni sembreranno scontati. In trent’anni tra libri e scuola nessuno me li ha mai spiegati in maniera chiara, anche se si sentono e utilizzano ovunque. Credo sia utile scriverlo ogni tanto. Forse proprio perché si sentono e utilizzano ovunque.

Lo stereotipo è una struttura cognitiva, un sistema organizzato di conoscenze riferita a individui, o gruppi, e condiviso socialmente. È un modello, un’immagine semplificata composta dai tratti più caratteristici (quasi mai in assoluto. Quasi sempre i tratti caratteristici sono quelli che, per un qualche motivo, sono i più interessanti per noi).

Durante tutta la nostra vita la mente costruisce, modifica e salva in memoria a lungo termine modelli per ogni cosa, per permetterci di riconoscerli e muoverci nel mondo.

William Henry Fox Talbot, A Scene in a Library. Fonte: The Met.

Anche senza leggere la didascalia riconosco subito due ripiani di una libreria, potrebbe essere un solo scaffale o la parte di un’intera biblioteca, non importa. L’informazione importante è che si tratta di un “gruppo di libri” e li riconosco perché ad un certo punto della mia vita, in maniera diretta o mediata, ho visto libri, librerie e biblioteche. So che quegli oggetti si leggono e che contengono conoscenza, istruzioni, racconti e via dicendo.

Cosa riconoscerebbe un antico egizio in questa immagine? O chi era abituato alla scrittura su tavolette argilla?

Questa cosa mi ricorda che qualche anno fa andava questa serie di video con ragazzini e adolescenti alle prese con la tecnologia “antica”.

Siamo intorno al 2013-2014. Penso che in qualche modo ora, con il ritorno della cultura analogica anni ‘80 riesumata da serie tv, film e prodotti di consumo, le reazioni potrebbero essere diverse.

Riassumendo un po’ la questione possiamo dire che i modelli cognitivi ci permettono di riconoscere e manipolare oggetti e concetti. Gli stereotipi, in maniera simile, ci permettono di tratteggiare individui o gruppi sociali e i loro comportamenti per poter agire di conseguenza.

Il termine stereotipo nasce in ambito tipografico, la stereotipia è una tecnica che utilizza lastre dal contenuto fisso (dette stereotipi o cliché) per la stampa. Solo all’inizio del XX secolo la parola ha acquisito il significato sociale e psicologico che conosciamo oggi, grazie allo scrittore e giornalista Walter Lippmann, che definiva gli stereotipi come “immagini nella nostra mente”.

«THE WORLD OUTSIDE AND THE PICTURES IN OUR HEADS

[…] By fictions I do not mean lies. I mean a representation of the environment which is in lesser or greater degree made by man himself. The range of fiction extends all the way from complete hallucination to the scientists’ perfectly self-conscious use of a schematic model, or his decision that for his particular problem accuracy beyond a certain number of decimal places is not important. A work of fiction may have almost any degree of fidelity, and so long as the degree of fidelity can be taken into account, fiction is not misleading. In fact, human culture is very largely the selection, the rearrangement, the tracing of patterns upon, and the stylizing of, what William James called “the random irradiations and resettlements of our ideas.” [Footnote: James, Principles of Psychology , Vol. II, p. 638] The alternative to the use of fictions is direct exposure to the ebb and flow of sensation. That is not a real alternative, for however refreshing it is to see at times with a perfectly innocent eye, innocence itself is not wisdom, though a source and corrective of wisdom. For the real environment is altogether too big, too complex, and too fleeting for direct acquaintance. We are not equipped to deal with so much subtlety, so much variety, so many permutations and combinations. And although we have to act in that environment, we have to reconstruct it on a simpler model before we can manage with it. To traverse the world men must have maps of the world. Their persistent difficulty is to secure maps on which their own need, or someone else’s need, has not sketched in the coast of Bohemia». Walter Lippmann, Public Opinion, 1921. The Project Gutenberg.

Gli stereotipi, in quanto immagini rigide e semplificate di comportamenti e caratteristiche umane, possono creare e sostenere pregiudizi. Il pregiudizio è un atteggiamento, vale a dire una valutazione dei diversi elementi del mondo sociale nel quale siamo immersi. Gli atteggiamenti possono essere positivi, neutri o negativi. Quando si parla di pregiudizi di solito si intende una valutazione negativa.

A cosa servono queste valutazioni? A guidare il comportamento, a decidere cosa fare, a reagire in una determinata situazione senza dover analizzare ogni singolo fattore nel dettaglio (cosa che porterebbe ad impallarsi come un vecchio pc troppo carico, probabilmente).

La discriminazione è un comportamento che può seguire un pregiudizio. Mi comporto in maniera differente con questa o quell’altra persona sulla base della valutazione che ho in mente. La discriminazione può essere più o meno esplicita, in base anche a quello che è ritenuto socialmente accettabile esprimere o mostrare in un certo contesto.

Gli stereotipi alla base del pregiudizio influenzano anche in maniera inconscia il linguaggio (Linguistic Intergroup Bias) e, in quanto strutture cognitive condivise all’interno di una certa società, sono usati nella propaganda per trasmettere norme, diffondere idee, rinforzare distorsioni e creare realtà labirintiche.

Nelle teorie dell’influenza sociale, all’interno delle quali si trovano tutti gli studi sulla propaganda, psicologizzare uno o più individui, spostando l’attenzione da “quello che stanno dicendo” a “lo dicono perché sono così è cosà” è il modo migliore per smettere di ascoltare le loro ragioni e non vedere disagio e possibili cause. Perché è vero che sport e cultura “fanno bene”, ma non serve a nulla introdurre dei rimedi se non si vuole nemmeno dare uno sguardo ai fattori scatenanti. Perché se i bisogni di autonomia, competenza e appartenenza, per non parlare dei diritti di base di salute e sicurezza, sono negati a interi gruppi di individui, hai voglia a promuovere fitness e regalare libri.

Dare tutta la responsabilità all’individuo della propria “devianza” lo trasforma in un comportamento individuale del tutto staccato da cause contestuali e sociali. Per cui il disturbo è sempre e solo un “malfunzionamento” della persona e mai l’espressione di un disagio causato da un sistema che vive anche su questo. O, più semplicemente, una caratteristica propria di quella persona che diventa “disagio” solo per fattori legati a contesto e società.

«L’ontologia oggi dominante nega alla malattia mentale ogni possibile origine di natura sociale. Ovviamente, la chimico-biologizzazione dei disturbi mentali è strettamente proporzionale alla loro depoliticizzazione: considerarli alla stregua di problemi chimico-biologici individuali, per il capitalismo è un vantaggio enorme. Innanzitutto, rinforza la spinta del Capitale in direzione di un’individualizzazione atomizzata (sei malato per colpa della chimica del tuo cervello); e poi crea un mercato enormemente redditizio per le multinazionali farmaceutiche e i loro prodotti (ti curiamo coi nostri psicofarmaci). Che qualsiasi malattia mentale possa essere rappresentata come un fatto neurologico è chiaro a tutti. Ma questo non ci dice nulla sulle cause. Se per esempio è vero che la depressione generalmente comporta un basso livello di serotonina, allora quello che va spiegato è perché in determinati individui il livello di serotonina sia basso. Farlo però richiede una spiegazione sociale e politica [anche una spiegazione sociale e politica, nota mia. Mark Fisher è molto lucido e duro in Realismo Capitalista. Per quanto mi trovi d’accordo con quanto scritto in tutto il saggio, faccio fatica in questo momento a condividere al 100% il suo tono di voce e le sue posizioni nette]: ripoliticizzare la malattia mentale è un compito urgente per qualsiasi sinistra che voglia lanciare una sfida al realismo capitalista». Mark Fisher, Realismo capitalista. NERO, 2018.

Nella nostra società esistono stereotipi molto potenti nell’alimentare pregiudizi e discriminazione. La fotografia ha un ruolo importantissimo in questo discorso perché un’enorme parte del meccanismo passa attraverso le immagini.

«L’apparente “innocenza” della fotografia è parte del suo potere retorico, un potere moltiplicato in ogni riproduzione di quell’immagine, che noi vediamo come qualcosa che appare “così com’è”. Le fotografie dànno l’illusione di un accesso trasparente alla “realtà”, inteso come il vero “linguaggio” della fotografia». David Bate, Il primo libro di fotografia. Torino, Einaudi Editore, 2011.

In questi giorni mi sto divertendo a interrogare le AI che generano immagini perché è molto facile riconoscere nelle riproduzioni bias e stereotipi appresi.

Instagram @tlon.it

Qui riconosciamo stereotipi su donne e anziani, ma me ne sono stati riportati altri. Di fronte a queste immagini, ma anche alle pubblicità, ai film, a qualunque cosa mi capiti sotto il naso mi chiedo quale sia il significato culturale di quello che sto guardando. Cosa mi fa venire in mente? Cosa viene lasciato fuori?

«Barthes ha presupposto questa retorica di un’immagine distinguendo tra la denotazione e la connotazione di una fotografia. La “denotazione” è “ciò che vediamo”, ciò che può essere descritto come semplicemente “lì” nell’immagine. La “connotazione” è l’immediato significato culturale che deriva da ciò che viene visto, ma che di fatto non è nella fotografia. In pratica, noi operiamo raramente distinzioni simili, perché esse appaiono nello stesso istante come prestazioni ovvie della fotografia». David Bate, Il primo libro di fotografia. Torino, Einaudi Editore, 2011.

Nel guardare una fotografia tutti i significati che ci troviamo (che ci arrivino spontaneamente o li inseriamo in qualche modo), riflettono le nostre strutture mentali e gli stereotipi che abbiamo di individui e comportamenti.

Tutti siamo portatori di stereotipi. Questo non vuol dire necessariamente che possediamo gravi pregiudizi negativi o mettiamo in atto comportamenti discriminatori evidenti, ogni giorno, causando danni a chi ci sta intorno. E anche se fosse, rimane comunque il rischio di non accorgersene o non riconoscerlo come un problema eccessivo. Perché il nodo più difficile da sciogliere è proprio lì: gli stereotipi “cattivi” e i pregiudizi sono trasparenti, se non addirittura assimilabili a comportamenti naturali e corretti, a chi ne è portatore. Dipende dalla sua cultura.

Che problema c’è se lo stereotipo di donna nella nostra cultura è una figura alta, magra, bianca e con i capelli lunghi? Di base, per me, niente di grave. Ma sono alta, bianca, magra e con i capelli lunghi.

Che problema c’è se lo stereotipo del fotografo medio è uomo, bianco, tra i 30 e i 50 anni, abbastanza prestante e con la battuta pronta? C’è che molto spesso mi tocca faticare di più per portare a casa un lavoro.

Che problema c’è se…potete inserire voi qualsiasi cosa vogliate, ne abbiamo tutti esperienza.

«La semplice distinzione tra denotazione e connotazione fatta poco fa mostra che il significato dato a un’immagine fotografica, la sua connotazione, dipende anche dalla cultura dell’osservatore.

[…] Questo passo dimostra che il significato di qualunque fotografia, la sua connotazione, non è mai interamente fissato. Di fatto, la conoscenza discorsiva che l’osservatore apporta all’immagine significa che le connotazioni di un’immagine sono sempre potenzialmente plurali. Come afferma Barthes, il significato di qualunque fotografia è polisemico». David Bate, Il primo libro di fotografia. Torino, Einaudi Editore, 2011.

Questo giochino del “che problema c’è se…” ogni tanto lo faccio con le fotografie che ho scattato. Di solito in momenti di umore buono e con lavori un po’ vecchi, la distanza aiuta a digerire meglio i problemi, sia di tecnica che di contenuto, che saltano fuori. E a lavorarci su, aggiustando il tiro per il futuro.

Gli stereotipi sono pericolosi anche quando a caratteristiche esterne vengono associate determinati tratti caratteriali. Un esempio chiaro è lo stereotipo della bellezza fisica: c’è un’antica tendenza a pensare che le persone giovani e attraenti posseggano anche tratti socialmente desiderabili come la simpatia, l’affabilità e la bontà. Le donne, di norma, sono sempre troppo sensibili. Gli uomini, al contrario, sono sempre solidi come rocce.

Lo stereotipo, detto terra terra, rappresenta una media, spesso falsata. Molto di quello che si ritiene socialmente accettabile, lo è perché si trova entro i confini di questa struttura. Non è sempre un bene, non è sempre un male: delle funzioni sociali dello stereotipo parleremo la prossima volta.

C’è un libro molto interessante di John Berger: Ways of Seeing. È una raccolta basata su un’omonima serie della BBC degli anni ‘70.

Non recente, ci sono alcune parti che sono invecchiate, ma in generale lo trovo ancora valido.

«Our principal aim ha been to start a process of questioning». John Berger, Ways of Seeing. Penguin, 1972.
«But the essential way of seeing women, the essential use to which their images are put, has not changed. Women are depicted in a quite different way from men - not because the feminine is different from the masculine - but because the ‘ideal’ spectator is always assumed to be male and the image of the woman, is designed to flatter him». John Berger, Ways of Seeing. Penguin, 1972.

Rispetto a questa ultima citazione penso che le cose in quarant’anni abbondanti siano cambiate. Un po’ per maggiore consapevolezza, un po’ perché rispetto agli anni ‘70 gli uomini non sono più i soli e maggiori consumatori di immagini.

«For the first time ever, images of art have become ephemeral, ubiquitous, insubstantial, available, valueless, free. They surround us in the same way as a language surrounds us.

[…]

The art of the past no longer exists as it once did. Its authority is lost. In its place there is a language of images. What matters now is who uses that language for what purpose». John Berger, Ways of Seeing. Penguin, 1972.

Gli stereotipi sono strutture della nostra mente che si riversano nelle fotografie che scattiamo. Non è possibile eliminarli e basta, fanno parte del nostro modo di conoscere il mondo e comunicare. Sono degli strumenti cognitivi. Quello che importa, come per il linguaggio, è chi li usa e per quale scopo.

Joy Garnett and Susan Meiselas, On the rights of Molotov Man, Appropriation and the art of context. Fonte: Aperture.org.

Anche se il testo On the rights of Molotov Man, Appropriation and the art of context di Joy Garnett e Susan Meiselas tratta di fotografia, simboli, contesto e appropriazione, penso a come il Molotov Man divenne, nella cultura in generale, lo stereotipo del combattente. Uno stereotipo che continuò a vivere indipendentemente, in contesti diversissimi, dalla persona (fotografia) che l’aveva generato.

«In 1990, I returned to Nicaragua with two filmmakers to document what had happened to the people in my earlier photographs. I learned that “Molotov Man” was Pablo Arauz, who was known as “Bareta” during the war, still identified himself as a Sandinista, and had ended up with a family and a pretty good job delivering lumber. (He owned his own truck)». Joy Garnett and Susan Meiselas, On the rights of Molotov Man, Appropriation and the art of context. 2007.

Gli stereotipi tendono a confermare il mondo così com’è. Analizzarli davvero è molto difficile, perché nel momento in cui li mettiamo a fuoco potremmo scoprire anche cose che non vorremmo vedere. Spesso con la fotografia non facciamo altro che ripetere queste immagini statiche che abbiamo nella mente, come in quella tecnica tipografica dalla quale prende il nome il cliché. Sforzarsi di “fare qualcosa di creativo” non serve a molto. La soluzione, come in molte altre pratiche, passa attraverso il lavoro.

«In Hokusai (1760-1849) ho trovato: “Dall’età di sei anni ho avuto la mania di disegnare. Verso i cinquanta avevo pubblicato un’infinita quantità di disegni, ma tutto ciò che avevo fatto prima dei settantatré anni non è degno che se ne parli. Verso l’età di settantatré anni circa ho compreso qualche cosa della vera natura degli animali, delle erbe, dei pesci, degli insetti. Di conseguenza a ottant’anni avrò fatto ancora dei progressi, a novanta penetrerò il mistero delle cose, e quando ne avrò centodieci tutte le cose mie, anche una semplice linea o un punto, saranno cose vive”». Gottfried Benn, Invecchiare come problema per artisti. Microgrammi 12, 2021.

  1. Anche se non avete un cane credo possiate immaginare lo schifo, non solo animale, che si trova.