#3.2 Sentirsi arrivat*

A proposito di carriera e talenti.

#3.2 Sentirsi arrivat*
Fronte: talento attico. Fonte: Wikipedia. Sfondo: Nasa su Unsplash.

Nelle Finzioni Borges scriveva che la gloria è una forma di incomprensione1. Oggi qui dentro parliamo del fare carriera, in senso allargato, come crescita: professionale, amatoriale e personale, e in qualsiasi altro modo la vogliate intendere. Sono tante le trasformazioni alle quali possiamo andare incontro attraverso la fotografia. È uno strumento che possiamo usare per scoprire noi stessi, per crearci un nuovo percorso di lavoro o anche solo per cucirci addosso un ruolo che ci può dare l’occasione di esprimerci e stare al centro dell’attenzione (anche solo per un pochino).

Qualsiasi sia il nostro percorso fotografico, così come da qualche parte iniziamo, in qualche altro punto crediamo anche di arrivarci, prima o poi. Magari non è una meta precisa, ma più una sensazione di miglioramento. Una crescita lineare da una condizione A a una condizione B, come in un gioco a livelli dove partiamo lumaca e arriviamo drago sputa fuoco (e magari dopo chissà quanto altro ancora). Come a scuola: se ci siamo applicati a sufficienza, man mano che diventiamo grandi cresciamo anche di classe.

Molt* di voi magari sapranno già che la crescita non è mai un processo solo lineare, ma somiglia di più alle montagne russe, con tanti alti e bassi.

Mi ricordo questo grafico dal 2010, andrebbe aggiornato ;) Fonte: aPhotoEditor.

Comunque sia, vediamo sempre un punto di inizio, uno di fine e un qualche tipo di spostamento in verticale. In realtà non è sempre e solo così. Parlando di carriera questo è solo uno dei tanti scenari possibili.

Quando ho iniziato a scrivere questo articolo avevo in programma di raccogliere qualche esempio di carriere di fotograf* più o meno not* per mostrare come ogni percorso sia diverso e come sia possibile, in ogni modo, ritagliarsi il proprio spazio fotografico. Erano parole di conforto, come quando stiamo con il morale un po’ a terra e cerchiamo conferme che ci stiamo comportando bene, nonostante tutto.

Io credo fermamente che esista un modo per definire il proprio spazio in fotografia. Ma credo anche che portare qui una serie di esempi sarebbe stato fuorviante. La carriera di un individuo non dipende solo dalle sue scelte e disposizioni, ma anche dal contesto. E di molte situazioni non ci è dato sapere.

Nel 2017 a Les Rencontres d’Arles ho visitato l’esposizione dedicata all’archivio dei primi anni di Annie Leibovitz. Una roba enorme che mi ha fatto sentire piccola, piccola. Una di quelle cose che ti fa pensare che la Leibovitz sia davvero una arrivata, guarda che carriera.

Fonte: Financial Review.

La sera stessa andai a vedere la sua presentazione all’anfiteatro e rimasi molto stupita nel vedere la sua fragilità e trasparenza nel parlare della malattia di Susan Sontag e dei suoi problemi finanziari (tra il 2009 e il 2010 rischiò di perdere i diritti di TUTTO il suo lavoro, si parlava di diversi milioni di dollari). Quella serata cominciò a cambiare il modo in cui immagino tutt* l* fotograf* “sopra di me”, riferimenti e idoli. Quell* che “se non ce l’hanno fatta loro, allora chi?”. Anche solo per il fatto che la propria vita finanziaria e familiare sia così di dominio pubblico, e una si ritrova nel fondo di un anfiteatro a condividere dolori e fallimenti di fronte a centinaia di estranei. È una situazione che non riesco a capire, probabilmente nemmeno la posso concepire.

Quindi, come potevo portare qui degli esempi di carriere fotografiche non sapendo quanto fossero fallimenti o successi? Forse tutti i percorsi sono intrisi un po’ degli uni e un po’ degli altri. E il successo dipende anche dal punto di vista. Borges ci aveva visto lungo, la gloria è una forma di incomprensione.

Non tutto è scalata verso l’alto. Ci sono carriere che possono procedere in orizzontale. Una persona può passare da un settore all’altro in maniera trasversale, senza mai raggiungere un’alta specializzazione in un campo ma acquisendo la capacità di associare in maniera multidisciplinare, di andare fuori dai binari quando serve. Senza dover per forza sempre volare dritto, come scrive Marina Marcolin.

Ci sono poi ancora carriere che si sviluppano in maniera radiale: stando ferm* dove stiamo e facendo in modo che il mondo ci passi sopra, sotto, attraverso e tutto intorno. Stavo per scrivere semplicemente, ma stare fermi raramente è più facile che muoversi, almeno psicologicamente parlando. Quando una persona all’interno di una comunità passa ogni giorno nello stesso ruolo può succedere che diventi un punto di riferimento. Sa come funziona tutto quello che gli sta intorno, chi sono tutt* e dove trovare la cosa giusta. Come il vecchio saggio del villaggio. Questo credo sia la condizione in assoluto più difficile per chi fotografa, così come per autor* e artist* in generale. Perché dobbiamo sempre fare, mettere tutto in una forma. Per fare in modo che venga condiviso. Oppure consumato?

In un certo senso sarebbe anche appropriato: in origine il talento era un’unità di misura della massa utilizzata per commerciare, diventata poi anche moneta nella Grecia Antica. Da lì al significato di talento come lo intendiamo oggi, come capacità o predisposizioni eccezionali, è un attimo. C’è di mezzo solo il filtro del Cristianesimo.

Fonte: Treccani.

Nella parabola dei talenti Gesù racconta di un signore che affida ai suoi servi cinque, due e un solo talento, prima di partire per un viaggio. I primi due servi vanno a impiegare quello che hanno ricevuto dai banchieri e riportano a casa il doppio della somma. L’ultimo, temendo di perdere quell’unico talento che il suo signore gli aveva affidato (e sapendo che sarebbe andato a richiederglielo) scava una buca nel terreno e lo nasconde. Il signore ritorna dai suoi servi, premia i primi due per i guadagni che hanno portato e punisce l’ultimo. La morale della storia è che chi fa valere nel mondo i doni che ha ricevuto dal Signore sarà poi premiato. Chi li nasconde, invece, verrà punito. Da qui il talento come simbolo di audacia, coraggio, fede, intelligenza e successo. Oh, comunque: belli i tempi in cui portavi due monete in banca e quella ti raddoppiava subito il capitale! Una cosa così, oggi, ma nemmeno barando a Monopoli contro gente ubriaca.

Il talento è un concetto complesso che può essere interpretato in diversi modi. Fotograficamente parlando sono cresciuta convincendomi di non averne nemmeno un goccio, ma di poter compensare con la costanza e il duro lavoro. Mi sono ripetuta per tanto tempo che il talento non esiste, e avanti così.

Devo però confessare di non averci mai creduto fino in fondo. Mi sarebbe piaciuto tanto, eh. Ma quanto mi brucia a volte, davvero tanto! Sono state troppe le occasioni in cui il talento di qualcun altr* ha incrociato la mia strada, facendomi sbandare. A volte per ammirazione ma a volte anche per invidia o irritazione. Per me imparare a fotografare è anche capire come e quando confrontarmi con l’altro in un modo sano per la mia pratica e non per coccolare o massacrare il mio ego (per poi andare a cercare il conforto altrove). Nel confronto dell’operato l’ego è meglio che rimanga ai margini dell’equazione, almeno nel mio caso.

Bernstein Reflections. Fonte: RaiPlay.

Il talento come tratto stabile di una persona, o come benedizione magica calata dall’alto, non esiste. Non esistono individui con un talento innato, puro e assoluto, che funziona ovunque e in tutte le occasioni. Ma non è nemmeno vero che non esiste. Ha solo forme molto diverse.

La definizione di talento origina nel campo semantico del commercio e del guadagno. Per spararla grossa potrei scrivere che è un concetto “capitalista”, al quale è legato a doppia via: l’individuo talentuoso trae molto profitto dai propri talenti, anche quando parte da zero. E chi possiede molto (successo, potere, beni) deve aver un qualche tipo di talento.

Fonte: Topolino.it.

Ancora oggi si parla del talento come di un qualcosa che si possiede, che si può far crescere o sprecare. Nel linguaggio comune si parla di fabbriche di talenti e di talenti (o diamanti) grezzi da lavorare. C’è chi ci guadagna, e anche tanto, sul talento di qualcun* altr*, magari senza nemmeno accordare e riconoscere un compenso.

Se vi capita di non sapere cosa guardare, questo è un film carino. . È una storia di finzione, ma che potrebbe non essere troppo distante dalla realtà. Tanto per fare un esempio: molto del lavoro di Einstein è stato svolto insieme a Mileva Marić, sua prima moglie, mai riconosciuta. Fonte: IMDb.

Nei manuali di base di psicologia cognitiva non c’è un capitolo sul talento, così come sta sparendo anche il concetto generalista di intelligenza. Non si cercano più i tratti, le misure oggettive, del genio, del leader o della persona di talento.

Hildegard von Bingen, L’uomo Sinfonico. Ideato qualche secolo prima del disegno di Leonardo da Vinci, a differenza dell’Uomo Vitruviano l’importanza non sono misure e proporzioni, ma le relazioni tra microcosmo (interno) e macrocosmo, la poesia e la musica. Fonte: folia magazine.

Questo perché il talento, così come l’intelligenza, non è una caratteristica stabile di una persona, ma si sviluppa con il tempo e la pratica. Secondo alcuni, il talento può essere visto come un insieme di competenze che possono essere apprese nel tempo: un insieme di capacità, motivazioni e disposizioni interne ed esterne. In ogni caso, il talento è sempre relativo a qualcosa e non esiste in modo assoluto.

«Il mondo è fatto di eventi, non di cose». Carlo Rovelli, L’ordine del tempo. Adelphi, 2017.

La competenza è prima di tutto competenza a vivere: si sviluppa per tutta la vita all’interno dell’ambiente che abitiamo.

«La competenza a vivere è un fenomeno complesso […]: è inseparabilmente fisica, biologica, cerebrale, mentale, psicologica, culturale (Morin, 1986). È polimorfica, cioè ha differenti forme, infatti è contemporancanente intrapsichica, cioè inserita nella configurazione di vita e nel mondo interno della persona, e interpersonale, cioè scambiata e co-costruita con l’ambiente relazionale e sociale. È un fenomeno multidimensionale: cognitivo e affettivo; come distinguere, per esempio, in una decisione il suo aspetto cognitivo, cioè ordinatorio della realtà, dal suo aspetto affettivo legato al suo significato di tagliar via, lasciare, separarsi dalle altre possibilità? Ancora, è estremamente dinamica e continuamente cangiante, quindi fluida, plastica, spesso contraddittoria e sempre articolata nel tempo sia storico sia della persona, nello spazio fisico e in quello immaginale. Individuare la sua origine è relativamente semplice, essa inizia con il primo esordio della vita intrauterina, viene costruita in differenti modi e a diversi livelli nel corso della storia individuale e sociale. Tutti siamo portatori di competenza a vivere, tutti siamo diversamente competenti. […] Tutto possiedono, sviluppano, usano competenze, ma ciascuno è competente a modo suo; essa non è un sistema normante, non definisce una norma o uno standard, non è omologazione». Piergiorgio Argentero, Claudio G. Cortese (a cura di). Psicologia del lavoro. Raffaello Cortina Editore, 2016.

Tanto per mescolare ancora un po’ le cose, possiamo anche aggiungere che, secondo alcuni modelli, la competenza è sempre sia struttura che processo. Quindi, semplificando, una costruzione, una “mappa” delle mappe di significato e un processo di scambio, interazione, con il mondo esterno e interno a noi.

Le competenze possono essere osservate e descritte come regole, ma solo in parte, perché ci sono mille altri fattori importanti per la pratica che rimangono inespressi in qualsiasi sistema, e non si possono cogliere a parole.

«Rules of art can be useful, but they do not determine the practice of an art; they are maxims, which can serve as a guide to an art only if they can be integrated into the practical knowledge of the art. They cannot replace this knowledge». Michael Polanyi, Personal Knowledge: Towards A Post-Critical Philosophy.

In fotografia ci sono (poche, secondo me) regole granitiche assolute, definite anche dal mezzo che usiamo (pellicola o digitale, formato quadrato o rettangolare, tanto per fare degli esempi). Abbiamo poi una costellazione sempre più ampia di regolette e pratiche che diventano via via più opache man mano che scendiamo giù nello specifico. Cose che funzionano in un certo contesto, ma non in un altro.

Io vado in crisi quando mi chiedono quale sia la lente migliore per il ritratto. Se non conosco i gusti fotografici della persona che mi trovo davanti comincio con un politicissimo “di solito si consiglia una lunghezza focale di 85mm”. Se sento che l’individuo è ancora presente azzardo un “personalmente vado da 50mm a 100mm”. Se poi, infine, mi lasciano lo spazio per parlare comincio a sbrodolare un elenco di casi particolari di tutte le possibili combinazioni soggetti-situazioni-macchine che mi sono capitate negli ultimi 10 anni fino a quando il discorso non comincia a sfumare. Di solito li perdo quando sono al “ma si può provare anche con un grandangolo spinto, sotto il sole di mezzogiorno e con il flash nudo montato in macchina”. Non conosco nessuno che si sia fatto male facendo un ritratto con una lente ampia, anzi!

Platon, Rem Koolhaas. Fonte: PlatonPhoto.

Non sono per la filosofia del vale tutto. Non ci ho mai riflettuto tanto sopra, ma forse quando fotografo adotto una specie di approccio a “imbuto”. Comincio a scegliere qualcosa tra le infinite possibilità, di solito dove c’è una luce interessante, ma può essere anche l’inquadratura o uno sfondo. E poi da lì proseguo, una scelta per volta, riducendo man mano tutte le possibilità fino ad arrivare alla foto. Ecco, quella foto lì è il risultato di una catena di decisioni mie e fattori esterni che non è detto che si riescano a descrivere tutti a parole.

Uta Barth, Nowhere Near (Untitled 99.9), 1999. Fonte: Uta Barth.
«La serie Nowhere Near dell’artista tedesca Uta Barth riduce il soggetto delle fotografie allo spazio fra le cose. Nell’immagine qui riprodotta concentra la sua attenzione sul telaio di una finestra e su quello che si vede al di là di esso, le cui forme sfocate marcano il confine di ciò che si trova al di fuori del campo visivo di chi fotografa. Di conseguenza siamo resi ipersensibili a ciò che tagliamo o a ciò che non guardiamo non definendolo pertanto come un soggetto o un’idea che può essere vista. […] Lo spazio tra l’osservatore e le fotografie diventa parte dell’interazione tra spazio e soggetto, vedere e non vedere». Charlotte Cotton, La fotografia come arte contemporanea. Piccola Biblioteca Einaudi, 2010.

Il talento è un insieme di competenze. Le competenze sono sempre in relazione a un cosa, un quando e un dove. Non esiste la competenza assoluta, l’individuo in grado di fare tutto. E non è nemmeno detto che competenze acquisite in passato andranno bene per sempre o definiranno tutto quello che faremo in futuro, o quello per cui verremo principalmente ricordati. Siamo relazioni in evoluzione.

Nan Goldin, Roommate in her chair. Boston, 1972. Fonte: Juxtapoz.
Nan Goldin, Sunset like hair. Sate, France, 2003. Fonte: Juxtapoz.
«I admire the flexible way that you approach your work. With The Ballad and The Other Side, as well, you work the way Walt Whitman did in Leaves of Grass. He kept adding to his book. I gather you see the project of your work as being one that necessarily will continue to change.

That’s true. I don’t know if it’s so much based on Whitman as on my need to tell whatever story I’m telling more and more accurately. That’s true of both The Ballad and The Other Side. I think with The Other Side, the old and the new book have a very different frame. The introductions are different and the slide show has changed in that there’s a new chapter of a trans woman friend of mine from the 2000s. There is a vast difference between that and life in the ’70s when the queens couldn’t go out in the daytime. There was none of this language and none of this awareness and none of this acceptance by society. I think the book traces that difference much more. I think each book is true to its time and this goes for the slide shows as well. In fact, yesterday I wrote a completely new afterword for the 10th reissue of The Ballad. I had to bring it up to my present life and my view of the past. So, yes, they are constantly re-edited. As for Memory Lost, the only thing I changed was to add the song “I Want to Be Evil” at the top. Originally it was silent at the beginning and then I added Eartha Kitt, which is a song I lip-synched at the time. I also re-edited some chapters of Memory Lost by taking out people who I felt wouldn’t want to be contextualized in that way. But I don’t think it’s a constantly evolving piece»
. Robert Enright, Meeka Walsh, Ends and Beginnings: The Generative Photographs of Nan Goldin. Bordercrossings, 2021.

A volte ho la sensazione di dover evolvere in una sola direzione, come se ci fossero delle tappe stabilite con dei cancelli che si chiudono a una certa età precisa. In psicologia sono stati sviluppati modelli a stadi molto statici, con profili e tratti. Ma le cose stanno cambiando, generando nuove visioni e strumenti.

E non è l’unico campo. Il tempo è una “cosa” che, per esperienza, sappiamo andare sempre avanti. Passato, presente e futuro, la direzione è sempre una sola e non c’è modo che le cose funzionino diversamente. Ma questa è solo una visione sfocata di quello che è il tempo.

«Inizio da un fatto semplice: il tempo scorre più veloce in montagna e più lento in pianura». Carlo Rovelli, L’ordine del tempo. Adelphi, 2017.

Siamo molto piccol* e i misteri da risolvere sono molti più di tutto quello che sappiamo. Anche tutto quello che ignoriamo contribuisce a formare la nostra conoscenza.

Dalla serie Netflix Dark. Io l’ho divorata. Riassumerla in due parole è impossibile.

E questa cosa qui a me manda in pappa il cervello, perché se nemmeno una cosa così universale e oggettiva come il tempo è quello che percepiamo allora con questi occhi sfocati noi guardiamo anche noi stessi e pensiamo che la vita sia fatta di tappe, di cambiamenti che si accumulano e di crescita da una configurazione di base a un’altra, che troviamo significativa. Ma siamo noi a definire quali stadi sono importanti, mettendo insieme i pezzi di queste nostre geometrie disordinate, unendo i puntini.

Francesca Woodman, Some Disordered Interior Geometries. Rome, Italy, 1977-1978.
«Francesca si installa tra quelle rigide figure con la flessuosità della sua fantasia, incolla piccole foto, immagini di sé e di oggetti legati alla sua storia personale, e frasi scritte a mano con la sua grafia spigolosa e serpentina, che distanzia una dall’altra le lettere delle parole. E una lotta tra l’ordine e il disordine, tra il passato e il presente, un richiamo all’infanzia con i suoi giochi caotici che nascondono sempre qualche pericolo. E anche un modo di calarsi nel corso del tempo, lei fragile tra tutti quegli spigoli, ma stabile, protetta dai suoi oggetti, a proposito dei quali annota: “Queste cose mi sono arrivate dalle mie nonne, mi fanno riflettere su quale sia il mio posto nella strana geometria del tempo”». Elisabetta Rasy, Le indiscrete. Storie di cinque donne che hanno cambiato l’immagine del mondo. Mondadori, 2021.

E poi c’è anche la società, le comunità che abitiamo, il contesto in cui cresciamo, a mostrarci quali siano i percorsi giusti e come esplorarli. A volte queste mappe si sovrappongono alle nostre sensazioni, magari in parte coincidono, e troviamo così una nicchia dove possiamo mettere radici e prosperare. Altre volte, invece, la nostra bussola interna ci indica una direzione diversa. Ci si può sentire sbagliat* e incompetent*, perché la pressione che viene da fuori può essere tanta, anche quando non sembra.

Allora, forse, sentirsi arrivat* non è tanto raggiungere una meta, che sia stabilita da noi stess* o da altr*, quanto riconoscere che i talenti sono prima di tutto valori nostri. E poi capire quali sono le situazioni in cui possiamo esprimerli al meglio, sapere quando per noi è più comodo viaggiare sul sentiero e quando, invece, uscire fuori strada per tracciare il nostro percorso. Il che, forse, ha molto a che fare con la libertà, che quasi mai è assoluta. Spesso non possiamo fare altro che riversare i nostri talenti, o parte di essi, su qualcun* altr*, come i servi della parabola di Gesù.

Ma credo ci siano sempre delle occasioni, sono una persona che non molla mai la speranza. A quel punto il talento non lo impegnerei in banca e nemmeno lo seppellirei nel terreno per proteggerlo. Scapperei a gambe levate verso un luogo dove poterlo veder fiorire.


  1. «Non esiste esercizio intellettuale che non risulti alla fine inutile. Una dottrina filosofica è all’inizio una descrizione verosimile dell’universo; con il volgere degli anni diventa un semplice capitolo – se non un paragrafo o un nome – della storia della filosofia. In letteratura questa caducità finale è ancora più evidente. “Il Don Chisciotte” mi disse Menard “fu prima di tutto un libro ameno; adesso è occasione di brindisi patriottici, di arroganza grammaticale, di oscene edizioni di lusso. La gloria è una forma di incomprensione, forse la peggiore”». Jorge Luis Borges, Finzioni (Pierre Menard, autore del Don Chisciotte).