#4.7 Lo sguardo
Un film, un libro e due riflessioni per l'estate.
Buona estate! Sono nel bel mezzo di un pomeriggio afosissimo. Ho recuperato un ventilatore, ma fa ben poco, per quanto si sforzi, poverino. E il fatto che il mio cervello stia andando a 3000 giri non aiuta a raffreddare la situazione. Finito questo articolo mi sa che tiro fuori un ghiacciolo dal congelatore e ci infilo la testa dentro 😏
Nelle ultime settimane ho letto (o riletto) un sacco di testi diversi che, a prima vista, hanno poco o nulla a che fare tra di loro. Men che meno con la fotografia: Tristi Tropici di Lévi-Strauss, il manuale di Antropologia culturale di Dei, La nascita della Tragedia di Nietzsche, La camera chiara e L’impero dei segni di Barthes...e tutta una serie di dispense sulla rivolta femminile, sui bias di alcuni approcci psicologici e sui limiti della parola in psicoanalisi. Un bel minestrone, insomma. Ah, e ci ho aggiunto anche Palomar di Calvino. Iniziato per svago, è riuscito a farmi pensare anche quello.
Tanti ingredienti tutti insieme, dove non si parla mai in maniera esplicita di macchine fotografiche e immagini. Potremmo escludere La camera chiara ma, anche lì, è un tentativo di parlare del mistero della fotografia da parte di un non fotografo.
«Nei confronti della Fotografia, ero colto da un desiderio “ontologico”: volevo sapere a ogni costo che cos’era “in sé”, attraverso quale caratteristica essenziale essi si distingueva dalla comunità delle immagini». Roland Barthes, La camera chiara. Note sulla fotografia.
E comunque, oltre ai concetti di studium e punctum, anche Barthes scrive facendo riferimento a immagini ed esperienze specifiche (una certa fotografia della madre, che non mostra mai nel testo), piuttosto che di una teoria generale della fotografia.
Ma torniamo al nostro minestrone: il filo sottile che mi permette di legare tante parole così diverse insieme, mantenendo un certo grado di senso, è il tema dello sguardo.
Possiamo parlare di fotografia in molti modi diversi: dal punto di vista tecnico, espressivo, storico o culturale. Possiamo confrontare macchine fotografiche e processi, così come farci domande sulla composizione, sull’inquadratura e sul punto di ripresa. Apriamo, in questo modo, degli spazi di discussione con riferimenti chiari, dove possiamo dire che la macchina fotografica è in alto o in basso, vicina o lontana, perché condividiamo (con un certo margine di errore) un insieme di coordinate universali che ci permettono di parlare e capirci in poco tempo.
La fotografia non è così complicata, in fondo.
Ma c’è anche un’altra posizione che possiamo prendere in considerazione, che non è più quella della macchina fotografica ma quella di chi fotografa. Non si tratta più di obiettivi e punti di ripresa ma di sguardo. E se anche qui possiamo parlare in termini di coordinate cartesiane nello spazio (alto, basso, destra, sinistra, ecc...), per me diventa molto più interessante andare a esplorare la posizione di chi sta scattando: la sua esperienza, il suo sapere, il suo istinto...insomma, “l’essere” dietro alla macchina fotografica.
Attenzione qui: esplorare la posizione di chi sta scattando non vuol dire parlarci sopra. Non vuol dire fare un’operazione di studio e analisi biografica alla fine della quale posso dire che Giandiaframma fotografa gigli in bianco e nero perché gli ricordano la nonna defunta quando aveva cinque anni. O che tizio predilige il ritratto come tentativo per superare le difficoltà di relazione con le altre persone. Questo lo posso dire, come non lo posso dire. Magari è vero, ma anche no. Chi lo può sapere? In questi casi è impossibile formulare una spiegazione forte, una relazione causale dove “se A, allora B”. Possiamo, al limite, formulare delle speculazioni.
Parlare di sguardo non vuol dire mettere dei confini, anzi, forse è proprio l’opposto. In Tristi Tropici Claude Lévi-Strauss scrive che, per diventare etnologi bisogna essere un po’ dei “disancorati cronici”, individui che sospendono la parola, il giudizio, in grado di staccarsi dalle proprie radici, aspettative e credenze (sto semplificando) per poter entrare in relazione con chi, o cosa, mi ritrovo davanti.
Qui dentro abbiamo parlato molto di schemi e stereotipi. Di come, secondo le scienze cognitive e la psicologia sociale sia impossibile liberarsi delle proprie strutture mentali, anche di quelle più distorte, perché sono gli strumenti attraverso i quali conosciamo il mondo. Si possono modificare e arricchire, ma non eliminarle del tutto. Partendo da questo presupposto, quindi, la teoria del disancorato cronico sembra un po’ difficile da mettere in pratica. Le due cose si escludono a vicenda o possono, in qualche modo, convivere?
Secondo la logica non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca. Ma la logica è solo uno dei modi che possiamo usare per dare senso al mondo. E, di solito, non è la logica la forza primaria che muove la fotografia.
Solaris è un film interessante per riflettere sullo sguardo. Non si parla direttamente di fotografia, ma ci sono diversi personaggi, ognuno con i propri immaginari. E un mistero: un pianeta coperto da un oceano che non lascia intravedere nulla sotto la superficie. E uno psicologo, Kris Kelvin, che viene spedito nello spazio per cercare di registrare e spiegare gli strani eventi vissuti dai ricercatori della stazione spaziale.
Non racconto altro, nel caso vogliate guardarlo, se non che ogni personaggio ha un diverso modo di guardare la realtà e di relazionarcisi.
C’è chi sostiene le ragioni della scienza e del lavoro. La nostra cultura ha una forte “base greca”, dove ragione e conoscenza agiscono come forze motrici primarie.
E poi c’è la posizione opposta, quella di chi vede la realtà come una proiezione dell’essere umano, dove tutto è uno specchio. Esplorare il cosmo non significa espandere la propria conoscenza, ma riversare (e riconoscere) sé stessi in tutto quello che ci circonda.
Infine, c’è la voce delle immagini, delle repliche meccaniche della forma. L’immaginazione è fatta da visitatrici estranee e irritanti, che fanno sia parte di noi ma che anche vivono una vita indipendente.
«It is not an artifice that the mind has added to human nature. The mind has added nothing to human nature. It is a violence from within that protects us from a violence without. It is the imagination pressing back against the pressure of reality. It seems, in the last analysis, to have something to do with our self-preservation; and that, no doubt, is why the expression of it, the sound of its words, helps us to live our lives». Wallace Stevens, The Necessary Angel: Essays on Reality and the Imagination.
Kris Kelvin, lo psicologo, dovrebbe agire da “disancorato cronico” per risolvere la questione Solaris. Se ci riesce o meno, lascio a voi scoprirlo.
Un piccolo accorgimento nel caso vogliate guardare questo film: cercate l’edizione originale, perché quella italiana negli anni ‘70 fu completamente stravolta per ragioni di “marketing”, come si direbbe oggi.
«Reclamizzato come “La risposta della cinematografia sovietica a 2001: Odissea nello spazio”, il film apparve in Italia nel 1974 mutilato dei primi 40 minuti, stravolgendone i dialoghi ed i profili dei personaggi, tutto deciso dalla casa di distribuzione italiana senza consultare il regista, onde “snellire” il film per fini di cassetta». Fonte: Wikipedia.
Oltre il danno, la beffa: il film così riarrangiato fu presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, per la gioia di Tarkovskij che chiese di rimuovere il suo nome dai titoli. Non succede solo a chi fotografa di vedere stravolto il proprio lavoro.
Chiudiamo ora con Palomar di Italo Calvino. Si tratta di una raccolta di brevi racconti con protagonista un certo signor Palomar. È un libro sullo sguardo o, meglio, sul guardare. Ci sono capitoli che contengono descrizioni minuziose mentre altri giocano sull’esperienza e virano verso riflessioni universali, se bastasse la pazienza.
«Non sono “le onde” che lui intende guardare, ma un’onda singola e basta: volendo evitare le sensazioni vaghe, egli si prefigge per ogni suo atto un oggetto limitato e preciso.
[...]
Guai se l’immagine che il signor Palomar è riuscito minuziosamente a mettere insieme si sconvolge e frantuma e disperde. Solo se egli riesce a tenerne presente tutti gli aspetti insieme, può iniziare la seconda fare dell’operazione: estendere questa conoscenza all’intero universo.
Basterebbe non perdere la pazienza, cosa che non tarda ad avvenire. Il signor Palomar s’allontana lungo la spiaggia, coi nervi tesi com’era arrivato e ancor più insicuro di tutto». Italo Calvino, Palomar.