#P.3 Tra Vulcano e Mercurio
Multitasking e sistemi a capacità limitata.
Fino a punto il multitasking va d’accordo con la creatività?
Me lo chiedo perché spesso ho l’impressione di dover portare avanti la pratica creativa (che sia fotografare, studiare un qualche libro o altro) sempre in parallelo con altro. È difficile trovare uno spazio e un tempo, che sia fisico o mentale, completamente libero.
«Intellectual freedom depends upon material things. Poetry depends upon intellectual freedom». Virginia Woolf, A Room of One’s Own. Booklassic, 2015.
Come esseri umani siamo abbastanza bravi a distribuire la nostra attenzione su più compiti. Rispetto ad altri mammiferi, riusciamo a fare più cose contemporaneamente. Possiamo rispondere ad una telefonata mentre prepariamo cena, oppure guidare e parlare con la persona seduta di fianco a noi. Riusciamo a lavorare e rispondere ad email urgenti, senza fare danni, fino ad un certo punto.
Il nostro cervello utilizza delle strategie per suddividere le risorse cognitive tra compiti anche mediamente complessi, quando serve. I nostri antenati raccoglitori dovevano scegliere le bacche giuste mentre buttavano un occhio sulla prole e un altro su eventuali predatori nei dintorni (anche se è più probabile che ad un certo punto si sia formata una sorta di organizzazione dei compiti, per cui c’erano sentinelle, bàlie e raccoglitori)1.
La biologia ce lo permette, l’evoluzione culturale la supporta, la società la stressa. Il multitasking è possibile ma ha sempre un costo, che è quello del passaggio da un compito all’altro, il cost of switching.
«According to Meyer, Evans and Rubinstein, converging evidence suggests that the human “executive control” processes have two distinct, complementary stages. They call one stage “goal shifting” (“I want to do this now instead of that”) and the other stage “rule activation” (“I’m turning off the rules for that and turning on the rules for this”). Both of these stages help people to, without awareness, switch between tasks. That’s helpful. Problems arise only when switching costs conflict with environmental demands for productivity and safety.
Although switch costs may be relatively small, sometimes just a few tenths of a second per switch, they can add up to large amounts when people switch repeatedly back and forth between tasks. Thus, multitasking may seem efficient on the surface but may actually take more time in the end and involve more error. Meyer has said that even brief mental blocks created by shifting between tasks can cost as much as 40 percent of someone’s productive time». American Psychological Association, Multitasking: Switching costs.
L’informatica si occupa da decenni delle strategie di multitasking e del context switching, valutando le risorse che un processore impegna per passare da un compito all’altro, o da un processo all’altro. La psicologia studia questi costi soprattutto in relazione a lavori delicati, dove un ritardo di decisione mezzo secondo potrebbe causare grossi danni (come nel caso del controllo aereo). In ogni caso, si tratta di energie e risorse che si consumano solo per passare da un compito all’altro, senza aggiungere elaborazione.
I costi si valutano sempre in relazione con i benefici, per cui il multitasking ha senso quando porta a un vantaggio nell’esecuzione generale del compito, quando la fatica viene ripagata. Per questo si parla, infatti, di strategie di multitasking.
Dunque: dal momento che è così difficile trovare il tempo da dedicare solo alla fotografia, e che ogni pratica creativa ha bisogno che le bollette vengano pagate e la cena servita in tavola ogni sera,
esistono strategie di multitasking che permettono di organizzare il tempo e le attività in modo da riuscire a portare avanti tutto in maniera efficace?
Si, esistono. Funzionano? Dipende.
Prima di tutto bisogna capire che ogni nuova strategia o abitudine che adottiamo ha un costo di apprendimento. In parole povere ci vuole tempo e impegno per impararla e fare in modo che dia risultati. Secondo, siamo individui diversi e non bisogna dimenticare i fattori contestuali.
Quello che funziona per qualcuno in un dato momento non è detto che sia efficace per tutti, sempre.
Ci sono cervelli che ottengono più vantaggio dal multitasking rispetto ad altri, sia per fattori biologici, neurochimici o esperienziali. Ci sono sono compiti che sono più compatibili di altri a viaggiare in parallelo mentre altri si inibiscono a vicenda. Ci sono fattori ambientali, contestuali e disposizionali.
Di certo io non riesco a seguire un film in italiano mentre scrivo questo articolo, ma ho meno problemi ad ascoltare musica mentre revisiono. Nel primo caso i due compiti sono in competizione e stressano tantissimo la memoria di lavoro (working memory).
In genere si parla di memoria come se fosse un’entità unica, ma in realtà la memoria è un sistema modulare e distribuito, anche nel cervello tant’è che nei classici casi di amnesia la persona dimentica eventi del passato ma può apprendere e ricordare eventi e nozioni nuove. Ma esistono anche casi molto diversi, come quello di H.M. studiato da Brenda Milner, che, dopo un’operazione di rimozione dell’ippocampo, perse la capacità di acquisire qualsiasi nuova nozione.
Esiste una memoria procedurale dove salviamo il “come si fa cosa” attraverso l’esperienza e la pratica. Riusciamo a guidare e chiacchierare contemporaneamente, ma la prima volta che ci siamo messi al volante, quanto era faticoso? Guidare un mezzo, ma anche suonare uno strumento, è una di quelle attività dove il multitasking diventa sempre più facile con la pratica, proprio perché ci sono compiti che passano in memoria procedurale, che possiamo fare in automatico, a un bassissimo costo cognitivo.
La memoria di lavoro è la memoria a breve termine. Ha una capacità limitata e può trattenere l’informazione solo per pochi secondi. La memoria di lavoro ci permette di elaborare l’informazione, che poi è la base di tante altre facoltà e sistemi. Molti studi ritengono che anomalie nel funzionamento della memoria di lavoro siano tra i fattori base dell’autismo, ADHD o dei deficit cognitivi legati alle sindromi depressive (ma i risultati delle ricerche non sono sempre omogenei, e c’è ancora moltissimo da studiare in questo campo).
Questa ultima frase non mi convince molto, soprattutto per l’utilizzo del termine anomalia, perché implica una distanza più o meno grande da quello che è definito normale. Ma chi è che definisce la norma? Cos’è la norma se non un punto di riferimento e non un comandamento biblico impresso nella roccia?
La psicologia come scienza è una disciplina molto recente. Non si può nascondere il fatto che per molto tempo il riferimento di “norma” sia stato l’uomo bianco sano. Ci vuole tempo per cambiare i metodi e gli strumenti, ci vuole tempo per arrivare ai risultati. Più vado avanti a studiare e più vedo i punti deboli e le distorsioni. Che è un bene, perché su quello che si vede si può lavorare.
Per tutto il periodo della scuola dell’obbligo (parliamo dai venti ai trenta anni fa) mi hanno insegnato che il modo migliore per studiare era rimanere concentrata senza distrazioni per tutto il tempo necessario a terminare il compito (anche ore)2. Il motto era: finisci quello che stai facendo prima di passare a qualcos’altro. Multitasking completamente abolito, quindi. Per alcuni, tuttavia, questo equivale a una tortura. Senza dimenticare il fatto che le nostre capacità cognitive sono sempre legate ad un corpo, per cui muoversi o gesticolare, o ricevere altri stimoli, può supportare il pensiero. A volte passare da un compito all’altro crea delle pause, sotto forma di oblio, che aiutano a sviluppare nuove idee.
«It’s probably a good idea to not rush to answer questions. […] We need space to think before we answer questions with any depth of engagement. […] Margins are incredibly, incredibly, important». Ian Lynam, The Impossibility of Silence: Writing for Designers, Artists & Photographers. Onomatopee, edizione 2020.
Molto spesso le tecniche e gli strumenti descritti nei testi per potenziare la memoria sono corretti, ma è davvero difficile trovare un beneficio generale a prescindere dall’individuo e dal contesto nel quale si trova. Altre volte, poi, si tratta di mnemotecniche, come la tecnica dei loci, che sono utili perlopiù per specifici spezzoni di informazione (come il PIN del bancomat o numeri di telefono) ma che servono a poco ad allenare la memoria in generale.
L’unico concetto fondamentale e utile (forse per chiunque) è ricordarsi che siamo “sistemi” a capacità limitata e che tutti gli stimoli che riceviamo vengono elaborati in un qualche modo, richiedendo risorse.
Dobbiamo riconoscere e trovare i sistemi e i contesti che meglio funzionano per noi, che siano lunghi periodi di concentrazione su di un unico grande tema o l’alternanza di tanti compiti più piccoli e veloci (magari micro-problemi di una questione più grande) e ricordarci che anche lo stimolo più banale, come una notifica che compare per due secondi sullo schermo del telefono alla periferia del nostro campo visivo (o una vibrazione, o un suono) può diventare un’interferenza.
Nessuna delle persone che conosco può sperimentare ed esercitare la propria creatività in totale libertà, senza altri impegni o pensieri.
Ognuno porta avanti il proprio percorso in parallelo con famiglia, carriere lavorative (anche se nello stesso ambito, come per la fotografia), problemi quotidiani, interruzioni che sembrano più importanti e che arrivano da tutte le parti.
Le persone più creative e produttive che conosco sono anche le più disciplinate e categoriche nel difendere il proprio tempo e spazio. Non è per niente facile. La triste verità per la maggior parte di noi è che viviamo la creatività sempre in parallelo, o in alternanza con qualcos’altro, come un’attività a bassa priorità.
Molte pratiche creative, tra le quali la fotografia, hanno bisogno di tempi non produttivi e ripetitivi ed è proprio lì che cerchiamo di infilare gli altri processi, le notifiche, il messaggio veloce. Sono interruzioni brevi ma che uccidono il ritmo della pratica, ci allontanano da quello che stiamo facendo, inquinano l’ecosistema in cui sviluppiamo le nostre idee.
«Ideas are cheap and abundant; what is of value is the effective placement of those ideas into situations that develop into action». Peter Drucker.
Una volta che l’ecosistema è inquinato bisogna spendere energie e risorse per ristabilirlo. Non è così facile, così come non è facile convincersi dell’idea che la pratica creativa, se è importante per noi, è fondamentale e primaria ed ha la priorità su tutto in quel momento3. Bisogna crearsi un ecosistema (che comprende anche uno spazio fisico riservato alla pratica) in cui sia facile vincere, soprattutto all’inizio, per cominciare a creare un’abitudine. Se non ho tempo da dedicare alla mia creatività nemmeno un’ora alla settimana è molto improbabile che riesca a dedicarci un giorno intero. Improbabile, non impossibile, ma molto difficile. Il rischio più grande è di riuscire a portare a termine l’impegno per qualche tempo, resistendo finché non diventa troppo pesante, cominciando a creare frustrazione e stanchezza.
Giocare per vincere vuol dire crearsi lo spazio che so di poter dedicare, sacrificando magari qualcosa che non mi pesa, per coltivare qualcosa che mi piace. Fossero anche 10 minuti al giorno. E andare avanti così, la costanza premia. Un po’ come per la guida: con il tempo e la pratica alcuni processi diventeranno automatici e costeranno meno fatica. Impareremo a riconoscere quali sono le cose che riusciamo a portare avanti in parallelo e quando abbiamo bisogno di più concentrazione. Sarà un multitasking consapevole ed equilibrato, un po’ come un’orchestra. Non come il caos di un pollaio in cui ogni gallina richiede attenzione.
«La concentrazione e la craftmanship di Vulcano sono le condizioni necessarie per scrivere le avventure e le metamorfosi di Mercurio. La mobilità e la sveltezza di Mercurio sono le condizioni necessarie perché le fatiche interminabili di Vulcano diventino portratrici di significato». Italo Calvino, Lezioni Americane. Sei proposte per il prossimo millennio. Mondadori, 2016.
Nella mia esperienza ho trovato molto utile, all’inizio, rimuovere il contatto con ogni dispositivo connesso a internet o schermo. Lo consigliano in tanti. È davvero troppo facile fare qualcos’altro, anche con tutte le notifiche disattivate e i non disturbare del mondo. La tecnologia non è il male, ma so di aver sviluppato negli anni un condizionamento per cui ogni volta che ho un momento vuoto entro in contatto, tocco, cerco, interagisco con questo dispositivo. Le associazioni che si formano quando non ce ne accorgiamo sono le peggiori da scardinare (e anche per questo rischiano di cadere nella dipendenza in alcuni casi). I dispositivi tecnologici non creano il problema, ma il modo in cui li utilizziamo, anche quando il comportamento diventa automatico.
«Diverso invece è dire che l’uso continuo di “menti esterne”, come uno smartphone collegato alla rete, introduce nuove strategie nell’uso delle capacità del cervello. […] la disponibilità continua di Google cambia lo stile di stoccaggio e recupero delle informazioni di coloro che lo usano più spesso perché si tende a non mettere dentro la testa quel che si sa reperibile in questa “mente esterna”. […] integrando la memoria naturale con quella artificiale». Paolo Legrenzi, Storia della psicologia. Il mulino, edizione 2012.
Secondo la teoria della mente estesa, in poche parole, le facoltà mentali non si troverebbero solo nel cervello o nel corpo ma si estenderebbero anche all’esterno. L’utilizzo di internet, ma anche lo sviluppo della stampa, avrebbe modificato i nostri processi cognitivi. È una teoria molto affascinante (anche se è ancora giovane e ha un sacco di falle) soprattutto se la penso in relazione con gli archivi fotografici.
«Il lavoro dello scrittore deve tener conto di tempi diversi: il tempo di Mercurio e il tempo di Vulcano, un messaggio di immediatezza ottenuto a forza d’aggiustamenti pazienti e meticolosi; un’intuizione istantanea che appena formulata assume la definitività di ciò che non poteva essere altrimenti; ma anche il tempo che scorre senza altro intento che lasciare che i sentimenti e i pensieri si sedimentino, maturino, si distacchino da ogni impazienza e da ogni contingenza effimera». Italo Calvino, Lezioni Americane. Sei proposte per il prossimo millennio. Mondadori, 2016.
Districarsi tra i tempi di Mercurio e di Vulcano non è un’impresa facile. Per me, a volte, è anche frustrante. Ci sono giorni in cui mi sento persa e incapace di prendere in mano la macchina fotografica, anche quando ho riservato un’ora, due o tre per fare pratica. Mi sento in colpa quando non mi sembra di fare abbastanza, di non essere all’altezza delle mie stesse aspettative. Sto imparando a non forzare nulla in quei momenti, a rimanere all’interno della pratica, a non abbandonarla per fare altro. Fosse anche solo per sfogliare un libro.
C’è chi sostiene che le donne siano più brave degli uomini nel fare più cose contemporaneamente, affermando che fin dall’antichità sarebbero abituate a fare qualcosa E curare la prole allo stesso tempo. Questo avrebbe portato ad una sorta di evoluzione biologica. Ora, così si semplificano talmente le cose da riportare più una curiosità che una teoria, oltre che una “buona” scusa. ↩
In realtà sembra che la strategia migliore di apprendimento nella maggior parte dei casi sia quella distribuita, ma l’ho imparato solo al Politecnico, quando la quantità di roba da studiare era talmente tanta, e tanto pratica, da rendere impossibile le full immersion. ↩
Non riuscire a dare un peso maggiore alla ricerca e alle pratiche creative non dipende solo dalla forza di volontà dell’individuo. Pensiamo alla scuola, al tempo che viene dedicato all’arte o anche al tipo di rapporto che si crea con essa. Spesso è solo un’attività extra, non necessaria, di intrattenimento. Bisogna scardinare un po’ questo condizionamento. ↩