#1.3 Acceleratori emotivi
Le immagini tra priming e livelli di attivazione.
Nel 1996 gli psicologi John A. Bargh, Mark Chen, and Lara Burrows organizzarono un esperimento con un gruppo di studenti della New York University. Mascherato da test per la valutazione delle competenze linguistiche, il compito consisteva nel costruire nel minor tempo possibile delle frasi di quattro parole di senso compiuto, a partire da gruppi di cinque termini mischiati a caso. Una specie di gioco “trova l’intruso”. Per una parte dei partecipanti le parole da scartare erano neutre, mentre all’altra parte, il gruppo sperimentale, venivano presentati termini legati allo stereotipo di persona anziana.
La psicologia sociale studia il modo in cui persone e gruppi percepiscono e pensano gli altri, li influenzano e si pongono in relazione con essi. Sono fenomeni complessi da osservare: la realtà non è riproducibile in laboratorio, per cui gli studiosi di questa disciplina hanno
imparato ad usare il gioco scientificamente,
sfruttando immaginazione e finzione. Quanto possono essere validi i risultati di qualcuno che sa di essere esaminato, altrimenti?
Il vero scopo dell’esperimento di Bargh e colleghi era di misurare il tempo che i partecipanti impiegavano a percorrere il corridoio verso l’ascensore, dopo essere usciti dalla stanza dell’esame. Risultò che tutte le persone esposte allo stereotipo della vecchiaia camminavano più lentamente. Gli scienziati registrarono così il fenomeno del priming con effetti diretti sul comportamento.
Il priming (tradotto in italiano: innesco) è uno stimolo più o meno esplicito che attiva o modifica risposte specifiche nei confronti di stimoli bersaglio successivi, detti anche target. Vi riporto qui sotto uno dei primi esempi che si trova navigando sul web. Guardate questa immagine:
E ora completate il testo senza pensarci.
Avete scritto ROSSO e FRUTTO vero? E perché non RUSSO e FRITTO?
Quello riportato qui sopra è un esempio molto semplice e un pochino tirato per i capelli di priming1. In questo caso lo stimolo-prime è dato da un’immagine mentre i bersagli-target sono parole, ma ne esistono di diversi tipi, tanti quanti sono i nostri canali sensoriali. Un suono può essere uno stimolo di priming, ma anche un odore, o un’altra sensazione. Il priming può essere percepibile o subliminale.
Il priming era un fenomeno noto già prima del 1996. Ma quello colpì più di tutto in questo esperimento fu l’effetto così evidente sul comportamento:
una manciata di parole erano sufficienti per modificare l’andatura di un gruppo di persone.
Da lì in poi gli esperimenti di questo tipo si moltiplicarono. Alcuni rividero e limitarono i risultati osservati, altri ne esplorarono le applicazioni pratiche. Esiste uno stimolo prime x che può spingere la vendita del prodotto y?2
Alcune strategie di marketing dei nostri giorni sfruttano questo fenomeno. C’è un grande interesse intorno a questo argomento, anche considerato il numero di articoli, post e libri che vanno dal neuromarketing al neurobranding.
Ci tengo a fare una breve digressione a riguardo. C’è un sacco di entusiasmo intorno a questo tipo di fenomeni applicati alla vendita. Un po’ troppo, credo. Il priming, così come tutti gli altri meccanismi psicologici con evidenti ricadute sulla vita di tutti i giorni sono molto affascinanti. Chi li conosce e li sa usare bene sembra possedere un po’ dei superpoteri per leggere e manipolare le persone. Ecco, non è così semplice.
Non nego la validità degli studi e dei fenomeni osservati, ma bisogna tenere conto che la maggior parte degli esperimenti psicologici, per avere una sufficiente validità scientifica, sono semplificazioni estreme, simulazioni in laboratorio (o quasi) delle situazioni reali.
«Finally, priming alone was not sufficient to promote a priming effect on walking speed comparable to Bargh et al's. We also had to manipulate experimenters' beliefs so that they would expect the primed subjects to walk slower. This finding is congruent with recent evidence showing that primed behavior is sensitive to the context in which it takes place [...]. Experimenters' expectations seem to provide a favorable context to the behavioral expression of the prime. Obviously, this interpretation remains tentative, as we do not know how this process operates. However, it is likely that experimenters who expect their participants to walk slower behave differently than those who expect their participants to walk faster and that such behavioral cues are picked up by participants». Stéphane Doyen, Olivier Klein, Cora-Lise Pichon, Axel Cleeremans, Behavioral Priming: It's All in the Mind, but Whose Mind? PLoS One, 18 gennaio 2012.3
Per farla breve, l’esperienza di laboratorio non coincide con la vita reale.
Ritornando al discorso del prime e del comportamento: la catena di persuasione, ovvero i “passi” che portano una persona da una prima impressione a mettere in atto un comportamento, è composta da diversi anelli legati a molti altri fattori, i quali devono verificarsi tutti con un’alta probabilità. La fluttuazione verso il basso di uno di questi elementi fa crollare la probabilità del comportamento.4 Siamo molto più complessi di così, ecco.
La maggior parte dell’informazione che recepiamo è di tipo visivo: le fotografie possono essere dei prime molto potenti.
Ogni volta che vediamo un’immagine, nel nostro cervello si attivano altre immagini, significati e stimoli in qualche modo collegati ad essa.
Pattern in memoria che derivano dalle strutture neurali e dal nostro vissuto,
da esperienza e aspettative, che cercano di anticipare o completare gli stimoli che verranno dopo, scartando quello che non c’entra nulla.
Sono valutazioni automatiche che precedono l’elaborazione dettagliata e consapevole, non hanno nulla a che fare con la cognizione, è un priming di tipo affettivo.
All’interno di progetti fotografici e serie convivono molte immagini diverse, ma che si parlano tra di loro. E questo succede anche quando si mettono insieme immagini con altri materiali, illustrazioni, documenti e testi.
Se ragioniamo dal punto di vista del priming, ogni immagine innesca un determinato stato verso un’altra, e così via. L’immagine successiva (il target) può far parte del pattern mentale che è stato attivato ed essere capita più velocemente, così da risultare più fluida e naturale.
Quando, invece, troviamo un target non coerente rispetto al prime che abbiamo ricevuto, impieghiamo più tempo a riconoscerlo. Questo crea una pausa, un’interruzione nel flusso di informazione. Obbliga la mente a fermarsi e a compiere uno sforzo cognitivo per capire quello che ha davanti, per recuperare in memoria le informazioni che non aveva considerato e attivare o costruire nuovi schemi.
Per complicare un po’ le cose possiamo aggiungere altre componenti al gioco. Non è solo il contenuto delle fotografie a funzionare da prime, si possono infatti considerare anche tutte le altre dimensioni: il formato, il supporto, il tipo di carta, il contesto, e così via.
Le immagini cambiano significato in base a tutti questi fattori. Cambiano i livelli di attivazione dei percorsi neurali, cambiamo anche noi.
«Non si può discendere due volte nel medesimo fiume e non si può toccare due volte una sostanza mortale nel medesimo stato, ma a causa dell'impetuosità e della velocità del mutamento si disperde e si raccoglie, viene e va». Eraclito, Sulla natura. 91, Diels-Kranz.
Ci sono immagini che fanno molta presa su alcune persone e su altre no, forse anche perché non attivano nessun tipo di schema nell’osservatore.
I prime e questi livelli di attivazione ci influenzano anche quando fotografiamo, non solo quando osserviamo o siamo esposti a stimoli. In fondo che cosa è fotografare se non anche rispondere ad uno stimolo che si trova al di fuori di noi?
Nell’articolo #1.2 L’enigma della voce abbiamo parlato degli schemi, di queste strutture di conoscenza che guidano il nostro modo di fotografare e la ricerca di nuove immagini.
Noi siamo tutto quello che abbiamo vissuto e con il quale siamo entrati in contatto. Ma questo tutto non è attivo sempre e tutto insieme.
Abbiamo risorse potenti ma limitate e sarebbe davvero poco conveniente avere sempre tutto a disposizione.
Quando quello che ci serve è a portata di mano risparmiamo tempo ed energie. E tutto quello che usiamo più di frequente rimane accessibile. Funziona per gli oggetti di casa ed è così anche per i nostri pattern mentali. Quelli che vengono attivati più spesso rimangono in superficie e hanno più occasione di essere innescati da stimoli esterni. Tutto quello che non viene periodicamente “caricato” si scarica, finendo pian piano sotto la soglia della coscienza.
Le fotografie esplicite, drammatiche, che mostrano contenuti sensibili possono innescare reazioni emotive molto forti. E con molto forti non intendo solo manifeste e plateali, potenti dal punto di vista del comportamento. Forti perché riescono a mantenere attivi e carichi schemi stressanti, a tirarli su verso la soglia della coscienza molto velocemente.
Di norma, la mente ha tutti gli strumenti adatti a rispondere a quegli stimoli che possono generare reazioni negative, a bilanciare lo stress e un’eventuale minaccia per la salute mentale.
Un mio professore aveva l’abitudine di avvisare tutti gli studenti prima di esporli a immagini, ma anche testi o racconti, che avrebbero potuto generare emozioni negative. Lo faceva ogni volta, anche quando si trattava di stimoli considerati deboli, come la fotografia di un bambino che piange. Un eccesso di riguardo da parte di un anziano insegnante un po’ troppo cortese, forse. Entriamo in contatto con immagini di dolore e violenza ogni giorno, anche senza volerlo, siamo troppo esposti e desensibilizzati?
«The image as shock and the image as cliché are two aspects of the same presence [...]. Conscripted as part of journalism, images were expected to arrest attention, startle, surprise. As the old advertising slogan of Paris Match, founded in 1949, had it: “The weight of words, the shock of photos.” The hunt for more dramatic (as they’re often described) images drives the photographic enterprise, and is part of the normality of a culture in which shock has become a leading stimulus of consumption and source of value […]. How else to get attention for one’s product or one’s art? How else to make a dent when there is incessant exposure to images, and overexposure to images, and overexposure to a handful of images seen again and again? The image as shock and the image as cliché are two aspects of the same presence». Susan Sontag, Regarding The Pain of Others. Penguin, edizione 2004.
Un giorno qualcuno fece notare al professore quanto fossimo abituati ad assistere a eventi anche cruenti attraverso i media, e che la sua premura era superflua. Il professore rispose di sapere che molte persone sono in grado di gestire in maniera sana quel tipo di informazione. Non lo faceva per loro. Il suo lavoro era di avvisare quelli che in quel momento erano più vulnerabili perché, per un motivo o per l’altro, non avevano gli strumenti per elaborare un certo tipo di informazione senza subirne un danno.
La nostra cultura ci fornisce strumenti insufficienti per elaborare il dolore, spesso è un tabù, le parole non sono sufficienti e le narrazioni non riescono a trattare davvero la sofferenza.
«Volevo raccontare il dolore senza alcuna filosofia. Volevo descrivere un’educazione al dolore e il suo utilizzo politico. Ma in letteratura il dolore per lo più esclude la letteratura. E nelle politiche esistenti il dolore è spesso ciò che ci induce a implorarne la fine.
Vero/falso:
- In filosofia il dolore è una piuma strappata a un uccello.
- In letteratura il dolore è un indice sottratto al suo libro.
- Nei film il dolore è un albero, mai la sua scure.Si vocifera che qualunque considerazione sul dolore nidifichi nella sua fenomenologia, ma la fenomenologia di solito si interrompe in una modesta scheggia di pena disponibile dichiarandola completa e universale.
[...]
Una nozione ampiamente accettata sul dolore sembra essere che “distrugge il linguaggio”. Ma non è vero: lo cambia. Difficoltà non significa impossibilità. Il fatto che all’inglese manchi un lessico adeguato a tutto ciò che fa male non vuol dire che sarà sempre così, solo che i poeti e i mercati che hanno inventato i suoi dizionari non hanno ancora - in materia di sofferenza - fatto il lavoro necessario». Anne Boyer, Non morire. La nave di Teseo, edizione 2020.
Le immagini sono acceleratori emotivi, le fotografie sono in grado di innescare reazioni potenti. Quando utilizzata come strumento di esplorazione di sé stessi la fotografia può aiutare a vedere dall’esterno la propria storia, a costruire una propria narrativa, ad affermarsi e rinforzarsi. Ma ci sono casi in cui può portare fuori strada e creare dei danni.
Le fotografie sono acceleratori molto sensibili.
Molti terapeuti o consulenti incoraggiano a sfogare le emozioni o i traumi repressi manifestandoli apertamente. Esistono moltissime tecniche che
«[...] si rifanno “al modello idraulico”, secondo il quale l’accumulo di energia [...], proprio come l’acqua bloccata da una diga, finisce per trovare una valvola di sfogo o comunque uno sbocco». David G. Myers, Jean M. Twenge, Elena Marta e Maura Pozzi, Psicologia sociale. McGraw Hill Education, III edizione 2017.
Il concetto di catarsi viene attribuito ad Aristotele il quale sosteneva che si potessero purificare le emozioni. Lo spettatore che assisteva alle tragedie dell’antica Grecia sperimentava un meccanismo liberatorio, la catarsi appunto, che liberava sentimenti di pietà e paura.
«L’ipotesi catartica è stata estesa fino a includere la liberazione emotiva ottenuta teoricamente non solo dall’osservazione delle vicende nei drammi, ma anche attraverso il ricordo e il rivivere eventi passati, esprimendo emozioni e compiendo azioni». David G. Myers, Jean M. Twenge, Elena Marta e Maura Pozzi, Psicologia sociale. McGraw Hill Education, III edizione 2017.
Gli psicologi sociali sostengono che assistere o prendere parte ad azioni forti non produca nessun effetto catartico. Questa idea di sistema idraulico per cui le emozioni negative e forti debbano essere liberate e, una volta lasciate sfogare, ritorni in equilibrio è esagerata.
Richiamare un’esperienza difficile o un trauma per rielaborarlo può essere, in molti casi, un’operazione delicata e complessa. Riportarlo alla luce non equivale a risolverlo. Esprimere sensazioni negative può alimentare ulteriori atteggiamenti equivalenti. Quando questo tipo di eventi ritorna in superficie continua a rimanere attivo e a riconfermarsi, riproporsi, anche in forme implicite e difficili da comprendere, se non con l’aiuto di un professionista.
«Gli psicologi studiano dei fenomeni ma “dopotutto!” quelli che osservano sono esseri umani. Persone felici e infelici, uomini che si suicidano e bambini che giocano, persone deluse che cadono in depressione, persone che si sforzano per raggiungere fini alti e difficoltosi, persone che sognano, progettano, che delinquono e così via. Persone che hanno bisogno di guida, di aiuto, di cure. Quale giovamento possono trarre queste persone dal calcolo, dalla misurazione e classificazione delle loro pene? Poco. Quello che occorre fare è guardare dietro la facciata degli eventi, andare al di sotto della superficie cercando di elaborare una metodologia descrittiva, ma anche tale da consentirci un'analisi empirica senza fermarci alla pura speculazione». Kurt Lewin citato da Piero Amerio in David G. Myers, Jean M. Twenge, Elena Marta e Maura Pozzi, Psicologia sociale. McGraw Hill Education, III edizione 2017.
Mi rendo conto che questo articolo è sfociato nello psicologico. Ma c’è un motivo se mi sono presa un po’ di spazio per parlarne proprio qui, in una newsletter che ha come titolo Making Pictures.
Molto spesso mi sono sentita persa nell’approcciare temi personali, legati a emozioni e storie individuali attraverso la fotografia.
Per me è un processo complesso, doloroso e pieno di insidie
che non mi ha mai portato ad una vera sensazione di sollievo. So che è un metodo che non funziona con me, che non forzerei su nessuno di fronte alla mia macchina fotografica. Sto imparando a non farlo nemmeno con me stessa.
Non credo nemmeno che esista un “metodo” che possa andare bene per tutti. Esistono tanti tentativi per costruire la propria strada. Alcuni funzionano in certi momenti, altri falliscono.
Il cuore di tutto il processo fotografico è l’essere umano. Il mio più grande obiettivo come fotografa è di costruirmi
una pratica sana, che mi permetta di fotografare e lavorare bene il più a lungo possibile.
Di mantenere il mio spirito sereno, il mio pensiero forte e il mio corpo in buone condizioni così come mi preoccupo che la mia attrezzatura sia ordinata e perfettamente funzionante.
Trovo che sia una dimostrazione un po’ falsata di priming perché le due parole non sono completate solo grazie all’immagine-stimolo della ciliegia, ma anche dalle lettere presenti che forniscono un suggerimento. In più credo che le parole ROSSO e FRUTTO siano utilizzate più di frequente rispetto a RUSSO e FRITTO. ↩
Lo studio intero è disponibile a questo indirizzo. ↩
Secondo il Paradigma dell’elaborazione dell’informazione formulato da McGuire, la persuasione sarebbe composta da sei fasi: presentazione del messaggio, attenzione, comprensione, accettazione, memorizzazione e comportamento. La probabilità di ottenere il comportamento desiderato è data dalla probabilità congiunta di ogni fase. ↩