#1.8 Lontano, vicino

Quando la distanza non è solo una questione di lunghezza focale.

#1.8 Lontano, vicino
Sfondo: Steps Hill on the Dead Sea, Dan Hadan, 2006. Fonte: europeana.eu. Fronte: a giant and a dwarf, Londra, 1927. Fonte: europeana.eu.

Nell’estate del 2015 ho trascorso due settimane di vacanza a gironzolare per la California. Una delle cose che ricordo è la campagna pubblicitaria Shot in iPhone 6, una galleria mondiale di immagini realizzate solo con la nuova e potentissima fotocamera dell’iPhone 6. Le fotografie si trovavano ovunque, sia online che offline, stampate su manifesti giganteschi ma anche giornali e riviste. Forse è stato il primo anno in cui gli smartphone hanno cominciato ad essere presi veramente sul serio come macchine per la produzione di immagini.

Che i cellulari potessero fare foto, quello si sapeva da anni. Ma quello che Apple dichiarò con questa campagna fu che il proprio prodotto poteva realizzare immagini equivalenti a quelle professionali, sia nelle qualità apparenti che negli utilizzi. Il nuovo iPhone era uno strumento per fare arte, per liberare il potenziale creativo di chiunque1. Se non ricordo male il 2015 è stato anche uno dei primi anni di lancio delle mirrorless sul mercato fotografico. Questa innovazione ha cominciato a scombussolare l’idea di quali attrezzature servissero per creare contenuti visivi di qualità, fornendo in cambio un flusso di lavoro dalla creazione alla pubblicazione più leggero e veloce (o almeno questa era l’idea).

Campagna Shot on iPhone 6 a San Francisco, 2015. Fonte: appleinsider.com.

La campagna ebbe un successo enorme, vincendo l’Outdoor Lions Grand Prix nel 2015, e fu ripresa anche l’anno successivo. La genialità non è dovuta tanto al prodotto in sé, per quanto innovativo, quanto al modo in cui è stato presentato, non mostrando “il cosa”, ma cosa poteva fare, ovvero:

  • creare immagini di una qualità tale da poter essere stampate giganti

e

  • dare l’impressione che chiunque, con un “semplice” telefono, potesse creare qualcosa degno di visibilità a livello mondiale.

Le fotografie selezionate da Apple per la World Gallery provenivano sia da fotografi professionisti che da amatori, ma nella campagna tutti erano messi allo stesso livello, usando lo stratagemma in firma “by Mario R.”, per dare l’impressione della persona qualunque.

Apple ha sempre spinto il marketing al massimo, più di ogni altra azienda al mondo, a volte creando dei veri e propri mondi distorti, ideali e iper realistici che rispecchiano i desideri del compratore (o li instillano?) e che l’azienda è sempre pronta a soddisfare.

«The World Gallery, in its sublime timeless imagery, puts the viewer at a distance, like much advertising does. As sociologist Michael Schudson writes in Advertising, The Uneasy Persuasion, “advertising looks more real than it should.” Schudson cites sociologist Barbara Rosenblum that in most advertising photography “light is used in conjunction with focus to create a hypertactile effect.” That hypertactile effect is also at play in the World Gallery, whose distancing aesthetic puts the viewer somewhat at a remove from the scenes represented. These scenes appear too real to be taken from everyday life. At the same time, and unlike what is found in most advertising photography, the World Gallery does not display images of the product sold. It is made by means of the product. The World Gallery displays images shot by users, who thanks to Apple, now have a global stage for their photography. By inviting people to identify with these ordinary artists, “we” visitors of the World Gallery are given access to that wonder, too, not just by admiring the photographs—at once art and ads—but also by creating our own images, after having purchased an iPhone of course». Niels Niessen, Shot on iPhone: Apple’s World Picture, 2021.

A livello di linguaggio visivo questa campagna pubblicitaria di Apple sfrutta tantissimo a proprio vantaggio la distanza fisica tra osservatore e immagini. Le immagini sono stampate così grandi che l’unico modo per guardarle è da molto lontano. In realtà non esisteva praticamente altro modo per vederle: erano quasi sempre stampate su affissioni titaniche a bordo autostrada o appese sulle facciate dei grattacieli. Le affissioni più piccole che ho visto saranno state quelle da 2 metri per 1,5 sui fianchi delle pensiline per autobus. Che di solito sono talmente zozze che difficilmente invitano ad avvicinarsi. E retroilluminate, proprio come lo schermo di uno smartphone, e anche questo non è un caso.

Steve Rhodes, Shot on #iPhone 6 #Apple campaign #Shotoniphone6 #SanFrancisco #iphone6. Fonte: flickr.com.
Steve Rhodes, Shot on #iPhone 6 #Apple campaign #Shotoniphone6 #SanFrancisco #iphone6. Fonte: flickr.com.

In generale, qualsiasi fotografia stampata più grande di un formato A3 porta a fare qualche passo indietro per poterla guardare nell’insieme. E una fotografia guardata da lontano (o molto piccola, come sullo schermo di un telefono) sembra sempre più nitida, più a fuoco e più bella di quanto non sia se guardata da vicino. Parte del marketing di Apple consisteva nel far credere che la macchina fotografica a bordo del loro nuovo dispositivo permettesse di creare immagini di qualità professionale. Ma, per quanto lavorata e stampata per ottenere il massimo, il file era ancora lontano dalla qualità di un JPEG sviluppato da un negativo digitale.

La macchina fotografica a bordo del nuovo iPhone è sicuramente migliore rispetto alle versioni precedenti, anche se non può reggere il confronto tecnico con una reflex o una macchina da ripresa, soprattutto in condizioni di luce difficile. Eppure riesce a darci lo stesso la percezione di un risultato professionale, fornendo una qualità sufficiente per la distanza (o posizione) dalla quale stiamo guardando.

«So what do the images on display in the World Gallery have in common, other than all having been shot on an iPhone 6? First of all, the World Gallery demonstrates that the iPhone's camera is so powerful that its high-definition pictures can be blown up to billboard-size format (be it with the aid of some image processing). Second, the campaign proves that thanks to the iPhone 6 everyone is a potential artist. As visual studies scholar Marita Sturken writes, Apple's photo advertising is “indicative of the increased blurring of the roles of amateur and professional that has emerged in the digital economy”». Niels Niessen, Shot on iPhone: Apple’s World Picture, 2021.

“Qualità professionale” è un concetto fumoso, a volte vuol dir tutto e vuol dir niente. Se da un lato le immagini hanno dei parametri qualitativi oggettivi per cui possono essere valutate come “giuste” o “sbagliate”2, dall’altro la percezione della qualità non ha indicatori così precisi, è un concetto più elastico che può essere plasmato al bisogno.

In questa epoca usufruiamo delle immagini da distante nella stragrande maggioranza delle occasioni. Anche se la fotografia è entrata nelle nostre case, è sempre a portata di sguardo da consumare al bisogno, le immagini restano sempre lontane. Le fotografie che vediamo su internet, sui social media, dai nostri telefoni e computer, sono piccole. Che è un po’ l’equivalente di dire che sono distanti, le guardiamo da lontano e di fretta, un po’ come le affissioni pubblicitarie a bordo strada.

«Sin da quando le persone hanno deciso che la fotografia è un’Arte, molti cercano di fare delle fotografie che sembrano Arte, invece di ampliare il concetto di che cosa sia arte o di quale aspetto abbia; come nel creare Dio a immagine dell'uomo invece che il viceversa. Le stampe diventano sempre più grandi e le idee sempre più piccole. Se si guarda con attenzione la maggior parte delle enormi stampe nelle gallerie e nei musei, appare evidente che, per lo più, le immagini non sono molto interessanti, se non si considera il fattore della dimensione. Ricordi la formica? Nel tentativo di rendere le fotografie più di quello che sono intrinsecamente, PERDIAMO ciò che sono intrinsecamente, e la magia scompare. Poiché le fotografie non sono così complesse dal punto di vista materiale, la differenza tra una fotografia ordinaria di qualche cosa e una fotografia che abbia una qualità trascendente o un’altra qualità emotiva può essere estremamente sottile e fragile. Non sto suggerendo che fare stampe di grandi dimensioni sia sbagliato: semplicemente non è per forza un guadagno e può essere una perdita». Philip Perkis, Insegnare fotografia (Note raccolte). Skinnerbox, serie Skinnerbox Note, II edizione settembre 2018.

Una foto leggermente sfocata o mossa, e non sto parlando di un intento creativo, può sembrare perfetta se vista come quadratino su Instagram. Guardate in questo modo le fotografie perdono qualunque qualità sensoriale e materica, quelle poche che avevano in confronto ad un dipinto o ad una scultura, e sono sempre più in balìa dell’interpretazione dell’osservatore. La mente compensa i dettagli che non riceve da stimoli esterni mettendoci sempre dentro qualcosa di suo.

Tenere a distanza l’osservatore non è solo un modo per ingannarlo. Distanza e dimensioni sono fattori che vanno tenuti in conto nel processo creativo e può essere un modo per rendere visibile l’invisibile o inevitabile qualcosa che non si vuole guardare.

JR, Giants, Kikito, Border Mexico-USA, 2017. Fonte: jr-art.net.
JR, Giants, Kikito, Border Mexico-USA, 2017. Fonte: jr-art.net.

Immagini più grandi hanno più possibilità di essere viste, gli spazi pubblicitari più ampi costano più di quelli più piccoli ovunque. A livello visivo le dimensioni sono degli indizi empirici che ci dicono che cosa guardare. All’interno di una fotografia gli elementi più grandi hanno maggior peso visivo e quando creiamo o guardiamo un’immagine possiamo chiederci “a che cosa sto dando più peso”?

Ma dobbiamo anche ricordarci che un contenuto (un messaggio) debole non diventa più forte se lo ingigantiamo, acquista solo un’importanza fragile e il trucchetto può essere facilmente smascherato creando un effetto “da il re è nudo”.

Pablo Rochat, Also Shot on iPhone, 2015. Fonte: pablorochat.com.
Pablo Rochat, Also Shot on iPhone, 2015. Fonte: pablorochat.com.

In fotografia possiamo considerare anche altri tipi di distanza oltre a quella spaziale tra immagine e osservatore. L’interpretazione è sempre il risultato di un’interazione della triade fotografo - soggetto - pubblico. A volte i vertici possono collidere, a coppie o tutti e tre insieme, l’immagine rimane quello che sta nel mezzo.

Forse sto semplificando un po’ le cose, però trovo che sia un modello efficace per spiegare quello che voglio dire. Provate a seguirmi.

Mettiamo che fotografo e osservatore siano vicini tra loro ed equidistanti dal soggetto: avranno lo stesso punto di vista sul soggetto e la fotografia creata sarà interpretata in maniera molto simile sia da fotografo che osservatore. Possiamo dire che la vedono un po’ alla stessa maniera. Questo è uno dei motivi per cui mi spiego la tenacia di alcuni a difendere la ragazza afghana come uno dei più alti picchi della fotografia contemporanea, nonostante tutte tutte le problematiche che si porta dietro. Si tratta spesso di uomini bianchi della stessa generazione (e probabilmente con gli stessi riferimenti culturali e sociali) di Steve McCurry.

Steve McCurry by the iconic photo of the Afghan Girl (1984) @CelinaLafuenteDeLavotha - Fonte: monacoreporter.com.

Se, invece, soggetto e fotografo sono molto vicini tra loro ma distanti dall’osservatore, come nel caso di alcuni lavori di ricerca o d’autore, quello che la fotografia comunica al destinatario potrebbe essere interpretato diversamente dall’osservatore, se non addirittura rifiutato. Può suscitare un effetto disturbante.

Roger Ballen, Asylum of the Birds. Fonte: rogerballen.com. Nel 2017 ho visitato l’installazione di Roger Ballen a Les Rencontres Arles e ho parlato persone che l’hanno respinta con forza, senza fare neppure un tentativo di interpretazione.
Roger Ballen, Asylum of the Birds. Fonte: rogerballen.com. Nel 2017 ho visitato l’installazione di Roger Ballen a Les Rencontres Arles e ho parlato persone che l’hanno respinta con forza, senza fare neppure un tentativo di interpretazione.
Iiu Susiraja, Lovely wife, 2018. Fonte: iiususiraja.com.
Iiu Susiraja, Lovely wife, 2018. Fonte: iiususiraja.com.

E cosa succede se soggetto e osservatore sono vicini mentre il fotografo è distante? Anche in questo caso può darsi che chi guarda non gradisca il risultato di uno sguardo così distante. Mi mangio le mani per non essermi segnata i riferimenti quando mi hanno raccontato questa storia. Vi assicuro che è vera e che la fonte è affidabile, un giorno mi ritornerà in mente il nome dell’autore. Forse.

Qualche anno fa un fotografo ha vissuto per alcuni mesi in una piccola comunità in Galles, documentandone la vita e le persone, come parte di un programma di residenze artistiche. Al termine del progetto stampò un libro che fece recapitare a mano dai giocatori di rubgy della scuola locale a tutti i residenti. Questi guardando le immagini si infuriarono così tanto per essere stati ritratti, secondo loro, come dei poveri tapini, che organizzarono dei falò tra vicini per distruggere tutte le copie del libro. Qualcuno provò infine a vendere le copie rimanenti su eBay facendoci qualche soldo.

«Normally, if there is any distance from the subject, what a photograph “says” can be read in several ways. Eventually, one reads into the photograph what it should be saying. Splice into a long take of a perfectly deadpan face the shots of such disparate material as a bowl of streaming soup, a woman in a coffin, a child playin with a toy bear, and the viewers - as the first theorist of film, Lev Kuleshov3, famously demonstrated in his workshop in Moscow in the 1920s - will marvel at the subtlety and range of the actor’s expressions». Susan Sontag Regarding the Pain of Others, Penguin, 2004.

Ogni volta che c’è un po’ di distanza la nostra mente riempie le ambiguità inferendo tratti, pensieri e sentimenti. Secondo la Scuola della Gestalt è il principio della chiusura che ci permette di completare le informazioni e di vedere anche quello che realmente non c’è.

Il triangolo di Kanizsa.
Il triangolo di Kanizsa. Fonte: Wikipedia.

Facciamo un passo avanti. Parlando di distanza non intendo solo la dimensione spaziale ma mi riferisco anche a tempo ed emozione. Le fotografie sono macchine del tempo che permettono di estrarre attimi e di rivederli in un altro momento, fuori dal flusso temporale di origine.

Mad Men - The Carousel. Fonte: Youtube.
«This device isn’t a spaceship, it’s a time machine. It goes backwards, and forwards…it takes us to places where we ache to go again». Mad Men, The Carousel.

La distanza temporale è una caratteristica base delle fotografie, fotografi oppure osservatori, quello che vediamo rappresentato è sempre almeno qualche secondo oltre l’evento vero e proprio. Il tempo può rendere interessanti immagini comuni come le foto di famiglia. Può essere il fascino di qualcosa di antico oppure la testimonianza di un qualcosa che non esiste più.

Albarrán Cabrera, This is you here. Fonte: albarrancabrera.com.
Albarrán Cabrera, This is you here. Fonte: albarrancabrera.com.

A distanza di tempo anche gli attimi scartati possono diventare parte di una storia, come tessere di un mosaico comprensibile solo da lontano. Il tempo aiuta a dimenticare vincoli, le limitazioni diventano più plastiche. Guardare vecchie fotografie è coinvolgente perché possiamo metterci dentro qualcosa della nostra fantasia e immaginazione, attivano il nostro cervello invece di riconfermare solo qualcosa che sappiamo già e che abbiamo a portata di mano tutti i giorni.

«... If we are something, we are our past, aren’t we? Our past is not what can be recorded in a biography or in the newspapers. Our past is our memory. That memory can be hidden or inaccurate—it doesn’t matter. It’s there, isn’t it? It can be a lie but that lie becomes part of our memory, part of us». Conversazione tra Borges e il poeta e saggista argentino Osvaldo Ferrari, This is you here.

Ma la dimensione temporale è importantissima anche per altri motivi. Chi lavora con la postproduzione sa che di solito è buona cosa lasciar passare del tempo dopo aver lavorato un’immagine, soprattutto se si tratta di interventi molto impegnativi. L’occhio e la visione umana hanno una capacità di adattamento straordinaria che serve per darci la percezione di un mondo stabile. Questo vuole dire anche che troppo contrasto o troppa saturazione in pochi secondi diventano contrasto e saturazione normale, portandoci qualche volta a calcare un po’ troppo la mano. Una tecnica per risolvere il problema è resettare gli occhi guardando fuori dalla finestra e lasciar passare un po’ di tempo prima di ritornare sull’immagine.

Il tempo, infine, gioca un ruolo fondamentale nella fase di selezione delle immagini. Ogni volta che sono indecisa su una sequenza lascio passare un po’ di giorni e di solito è il tempo stesso a trovare una soluzione. Secondo il filosofo Kierkegaard “la vita è prima vissuta e dopo compresa”.

«Così ora ho una grande quantità di stampe di prova. Forse una o due sono semplicemente favolose, e lo so. Bene. Le appendo tutte al muro con delle puntine in un posto con una buona luce e in una settimana circa si selezioneranno quasi da sole. Scoprirò come eliminare le più deboli e, fatto più importante, capirò meglio come guardo il mondo. Ancora una volta le fotografie sono la prova di un'esperienza e questa prova conduce a una nuova esperienza». Philip Perkis, Insegnare fotografia (Note raccolte). Skinnerbox, serie Skinnerbox Note, II edizione settembre 2018.

L’ultima distanza che voglio considerare è quella emotiva. I volti di chi conosciamo e amiamo attirano la nostra attenzione più di ogni altro elemento in fotografia, è un processo automatico e inevitabile. Tendiamo ad amare tutte le immagini di chi ci sta a cuore, non importa la qualità tecnica e a volte nemmeno l’espressione, sono icone sulle quali proiettiamo tutto il nostro amore e affetto.

Quello che ci sta intorno e chi amiamo sono qualcosa di unico ma che facciamo fatica a vedere per davvero e senza filtri. A volte la fotografia diventa uno sforzo per ristabilire un contatto perduto con ciò che è.

Sally Mann, Proud Flesh. Fonte: sallymann.com.
Sally Mann, Proud Flesh. Fonte: sallymann.com.

Ogni volta che osserviamo qualcosa o qualcuno che ci è vicino tutti i giorni vediamo perlopiù quello che già sappiamo. Al cervello piace fare economia e, finché non si verificano grossi cambiamenti di stato, continua a proiettare all’esterno i propri schemi e certezze considerandoli come realtà. Quando si inizia un progetto nuovo, grande o piccolo che sia, non bisogna mai fermarsi solo alle prime immagini, ai primi tentativi, anche quando abbiamo la sensazione che funzionino bene. Queste sono solo l’ombra di quello che già conosciamo, a volte sono immagini stereotipate. Non c’è un trucchetto veloce per spegnere questo sguardo, ma l’esperienza e l’allenamento aiutano. Scattare queste immagini aiuta a buttarle fuori, ad esaurire tutte le possibilità che già abbiamo in mente per cominciare ad immergerci davvero nell’ignoto.

A volte sfruttare la distanza emotiva può vuol dire riprendere una storia dolorosa e antica per ricomporla e rielaborarla. Qualche settimana fa ho incrociato per caso su Instagram, grazie a @detrituszine, il lavoro del fotografo Phil Hill. Questo autore lavora su temi di narrativa, connessione e identità.

Phil Hill, Unreliable Narrator. Fonte: philhillphotography.com.
«“Unreliable Narrator” plays on narrative interpretation and the existence of “truth” by placing differing versions of the same story together: my family’s, my own narrative, and the pervasiveness of memory through sequences of archive photography, text, my images, and my text. The project is designed to create assumptions of narrative and then works to undermine them […] is a reflexive interrogation of the stories that we tell each other, and ourselves. Using the personal archive as a starting point, I explore estranged relationships within my family and how trauma can continue to impact subsequent generations». Phil Hill, Unreliable Narrator.

Esplorare la storia della propria famiglia vuol dire mettere in fotografia tutto quello che si sa, si crede e si sente a riguardo. Nel momento in cui si introducono nel progetto elementi esterni, come materiale da album fotografici o altri documenti, il nostro racconto si scontra inevitabilmente con il punto di vista di qualcun altro. Questo crea un movimento di ipotesi che si rinforzano ed indeboliscono, in una narrativa continua dove non ci sono vinti o vincitori. Che poi, in effetti, stabilire chi abbia ragione o torto non è nemmeno lo scopo del gioco, a meno che non si intenda la fotografia come una competizione o un palco per affermare quello che si ritiene giusto. Come uno strumento per sopraffare l’altro e raccontare solo una versione della storia. Questa è propaganda.

Fotografare qualcosa di emotivamente vicino non lascia scampo, bisogna farci i conti e collaborare. È difficile perché bisogna anche un po’ fidarsi, ascoltare e lasciare spazio a quello che arriva da fuori anche quando in contrasto con il nostro sentire. Non sto parlando solo di storie personali, ma anche di esperienze o eventi che, per qualsiasi motivo, condividiamo sul piano emotivo con perfetti sconosciuti. Qualche volta sentiamo questa connessione e pensiamo “si, lo so, ci sono passato anche io!” e viene la tentazione di cominciare a raccontare, a fare, a fotografare perché tutto è già chiaro nella mente e nel cuore e non c’è nient’altro da dire. E fotografare diventa un gesto naturale, come respirare, non se ne può fare a meno. Sono momenti in cui si producono immagini come non mai, e va bene seguire il flusso, ma bisogna anche tenere a mente che, ogni volta che tutto scorre liscio e senza intoppi, probabilmente è perché ci stiamo perdendo qualcos’altro di davvero interessante mentre seguiamo il re nudo per strada.

«Ma la passante è anche “in lutto”, non bisogna fare di lei un’opera d’arte, quanto piuttosto avvicinarsi alla sua vita, avvertirne la sofferenza, riconoscere in lei una finitudine: su questo piano ovviamente hanno luogo i veri incontri». Yves Bonnefoy, Poesia e fotografia. O Barra O Edizioni, 2015.

  1. Sappiamo benissimo che gli strumenti sono solo uno dei fattori del processo creativo, spesso arrivano anche alla fine, nel momento in cui si decide il “come” dopo aver definito il “cosa”. Però in fondo al nostro cuoricino c’è sempre una parte di noi che pensa di avere un potenziale creativo immenso bloccato dalla mancanza di strumenti invece che dalla semplice carenza di pratica. Apple parla proprio a questa parte, fornendo una soluzione.

  2. Ci teniamo il discorso di cosa voglia dire immagine “giusta” e “sbagliata” per un’altra volta. Qui mi riferisco ai difetti tecnici più banali e non intenzionali, come una messa a fuoco sbagliata.

  3. Video di approfondimento sull’effetto Kuleshov.