#2022.10 Ottobre
Il riassuntone degli spaventi.
Chi più, chi meno, abbiamo tuttз ricevuto almeno una piccola dose di spaventi nelle ultime settimane. E c’entra poco il fatto che oggi sia Halloween: le bollette, il prezzo della spesa al supermercato, Photoshop e Lightroom che si aggiornano alla versione 2023 e funzionano peggio di prima1. Google che sta puntando sempre di più sugli annunci a pagamento e comincia a presentare sempre di meno risultati pertinenti. Che odio.
Dicono che quello che non uccide renda più forti, il che è una gran boiata. Qualsiasi cosa sia, se riesce a portare un essere vivente ad un passo dalla morte, vuol dire che ogni fibra del suo corpo ed ogni parte del suo spirito è ridotta ai minimi termini, allo stremo. Una frattura non rende un osso più forte (se mai, lo indebolisce), uno spavento non ci rende immuni alla sua causa (se mai, più sensibili).
Quello che davvero rende più forti non sono sfighe e avversità, ma ciò che ci permette di superarle. Gli obiettivi, i desideri, i sogni…ma quelli veri, “nostri”, che sappiamo di voler e poter coltivare seguendo i nostri ritmi e volontà. Diffidiamo dei miraggi, delle ambizioni irraggiungibili che ci fanno sentire inadeguatз perché, di solito, vengono da qualcos’altro. Non importa quanti sforzi facciamo: i miraggi rimangono sempre là, sull’orizzonte. Gli obiettivi, invece, in un modo o nell’altro si raggiungono.
A proposito di traguardi: faccio fatica a realizzare che mancano due mesi e quattro articoli alla fine di quest’anno. Grazie a tutti per il supporto!
Nelle ultime settimane è uscita l’app di Substack per anche Android. La uso da un po’ per leggere altre pubblicazioni e in effetti la trovo comoda.
Read Making Pictures in the Substack appAvailable for iOS and AndroidGet the app
Anche se continuo ad amare la possibilità di leggere le pubblicazioni da browser anche senza iscriversi, la trovo una gran cosa di questi tempi.
Ho iniziato a tradurre e comporre la versione inglese di Making Pictures. Questo posto andrà avanti nel 2023 con un formato un pochino diverso e migliorato. NON COME Lightroom e Photoshop, promesso.
Vorrei già darvi un’anteprima ma ho un post-it sullo schermo con scritto di non spoilerare niente fino a dicembre almeno ;)
Lasciamo le sorprese per Natale e passiamo quindi senza ulteriori indugi al riassuntone di ottobre!
Argomenti trattati
Qualche anno fa ho realizzato che con la fotografia mi interessa esplorare argomenti legati alla salute mentale. Faccio ancora fatica a parlarne, perché è un discorso enorme e complicato. Mi sento ancora lontana dall’avere in mano fotografie da pubblicare e condividere, che poi è sempre e solo l’ultimo tassello di tutto un processo. Per cui va bene così.
La prima cosa che ho fatto quando ho deciso che avrei cominciato a lavorare su questo tema è stato guardarmi intorno per vedere cosa c’è già in giro. Perché attraverso il lavoro di altri riesco a capire subito quali direzioni esplorare e quali preferisco evitare. Lavorando con il volume si possono anche notare le regolarità, quelle cose che vengono mostrate o fatte sempre allo stesso modo o con poche variazioni. Ed è lì che mi chiedo: ma è davvero sempre così? Perché questa rappresentazione?
Ci sono aspetti che vengono più o meno sempre mostrati in un certo modo. Come, per esempio, la solitudine della vita mentale. Non parlo solo dell’essere abbandonati da supporti ed assistenza, anche se l’emarginazione è un’esperienza (ed un problema) reale. Ma in generale di come sentiamo, nel profondo, di essere unici e soli nella nostra vita mentale, del non poterne parlare o condividere, del terrore del giudizio o del non essere creduti. Nell’ambito medico le malattie mentali sono l’unico caso in cui si arriva a cercare una diagnosi anni dopo la comparsa dei primi sintomi. È forse perché non è facile vederli o perché ci insegnano che è solo tutto nella nostra testa? Che intorno, e dentro di noi, c’è solo vuoto?
Ma, tecnicamente, anche il dolore che provo se mi slogo una caviglia è tutto nella mia mente, no?
Nel percorso di costruzione di un’identità fotografica ci aggrappiamo a modelli, a fotografз che ci ispirano, cercando di capire come si fa e come ci si comporta. Se effettivamente stiamo facendo nel modo giusto oppure no. Questo succede più o meno per tutti i ruoli in questo mondo. Ma, per la mia esperienza, comincio a pensare che la definizione di una propria identità fotografica sia un processo caleidoscòpico, pieno di contraddizioni e anche divertente da osservare.
Ed è per questo che ho deciso di fare un piccolo quasi-esperimento. Ho cercato di ricostruire la rappresentazione stereotipica del Fotografo® a partire da film e serie TV che, se non contiamo i social media (che avrebbero reso il discorso un po’ più complesso), sono ancora dei potenti mezzi di diffusione della cultura. I risultati non sono statisticamente significativi, ma è stato un gioco divertente.
Non esiste un modo giusto di essere fotografз. E, allo stesso tempo, vi dico anche che tutto il disagio, la frustrazione, l’indecisione e l’insicurezza è capitato di provare non sono solo frutto dell’immaginazione o di troppa sensibilità. Dipendono da quello stereotipo di Fotografo® che la società ci butta addosso. La cultura campiona la realtà e la realtà modifica la cultura, ma solo quando questa non è fossilizzata da strampalati tentativi di “difenderla”. Che già i cambiamenti oppongono resistenza, non c’è per niente bisogno di mettersi ad alzare barriere e barricate.
Appunti e citazioni
«Proprio nel dipingere una tela vuota, il pittore “dipinge sopra delle immagini che ci sono già” e che pulsano stereotipiche nella tela vuota proprio nel suo essere vuota. […] una pagina bianca e una tela vuota non devono essere riempite, bensì sgombrate, perché sono già piene di quegli stereotipi che definiscono lo sfondo della nostra percezione del mondo e che ci restituiscono una certa categorizzazione della realtà, con le sue valorizzazioni e il suo rapporto tra sapere e potere. […] Essi rappresentano una determinata configurazione enciclopedica che, con la sua valorizzazione e il suo particolare modo di declinare un rapporto tra sapere e potere, rappresenta lo sfondo dell’atto di enunciazione e costituisce dunque la condizione di possibilità stessa dell’espressione della soggettività nel linguaggio». Claudio Paolucci, Sfuggire ai cliché. Gli stereotipi tra enciclopedia, enunciazione e soggettività nel linguaggio. Reti, saperi, linguaggi. Fascicolo 2, luglio-dicembre 2017. Il mulino riviste web.
« …l’avventura della ricerca è misteriosa, appassionante, e riserva molte sorprese. In essa non un individuo, ma tutta una cultura entra in gioco, e talora le idee viaggiano da sole, migrano, scompaiono e riappaiono, ed accade loro come accade alle barzellette, che migliorano via via che qualcuno le ri-racconta». Umberto Eco, Come si fa una tesi di laurea, Bompiani, Milano, 1977 (Introduzione alla II ed. del 1985).
«Nel momento in cui dico: questo è uno “schizofrenico” (con tutto ciò che, per ragioni culturali, è implicito in questo termine) io mi rapporto con lui in modo particolare, sapendo appunto che la schizofrenia è una malattia per la quale non c’è niente da fare: il mio rapporto sarà solo quello di colui che si aspetta soltanto della “schizofrenicità” dal suo interlocutore... Per questo è necessario avvicinarsi a lui mettendo fra parentesi la malattia perché la definizione della sindrome ha assunto ormai il peso di un giudizio di valore, di un etichettamento che va oltre il significato reale della malattia stessa». Franco Basaglia, L’istituzione negata. Baldini+Castoldi. Edizione Kindle.
«… con il crearsi di altri modi di affrontare la sofferenza mentale che porteranno in sé nuove contraddizioni, nuove domande per gli operatori, per chi ha bisogno dei servizi, per la psichiatria, per la società: problemi che riguardano sempre il rapporto fra norma e società, ideologie scientifiche e diritti delle persone, che reclamano un nuovo concetto di salute e di malattia, di normalità e di follia, nuove risposte sociali e di relazione oltre che sanitarie». Franco Basaglia, L’istituzione negata. Baldini+Castoldi. Edizione Kindle.
«Along with many others at the dawn of photography, Diamond believed in the apparent objectivity and realism of the faithful photographic record, “free altogether from the painful caricaturing which so disfigures almost all the published portraits of the Insane as to render them nearly valueless for purposes of art or of science”. However, Diamond’s photographic images were not objective depictions of mental illness but rather reflections of the predominant cultural understanding and iconography of the Victorian era». Cambridge University Press, Hugh Diamond, the father of psychiatric photography – psychiatry in pictures, 2021.
«Sul finire del XIX secolo, all’uso classificatorio si sovrappone il potenziale disciplinante della fotografia. Oltre che per accompagnare le cartelle cliniche dei pazienti e per fortificare le diagnosi dello staff medico, nei manicomi si cominciano a produrre immagini celebrative che sembrano offrire una risposta d’ordine al disordine degli internati: l’efficienza e il candore dei reparti; l’articolazione dei luoghi dell’ergoterapia; gli spazi verdi; la pulizia e la modernità della strumentazione clinica; l’armonia delle foto di gruppo, per attenersi ad alcuni dei soggetti maggiormente ricorrenti nelle fotografie destinate a testimoniare del buon funzionamento dell’istituzione, molto spesso realizzate da medici o infermieri appassionati e abili nell’arte dell’inquadratura». Maddalena Carli, Testimonianze oculari. L’immagine fotografica e l’abolizione dell’istituzione manicomiale in Italia. Istituto per le Materie e le Forme Inconsapevoli.
«Quando varca i cancelli dell’ospedale, non sa esattamente cosa fotografare; ha tuttavia chiaro di voler evitare un approccio fondato sull’“orrido”. Dopo qualche giorno, decide di andare oltre lo stigma e di rivolgersi all’uomo, alla “solitudine del malato mentale, rispetto al suo mondo di provenienza, rispetto agli altri, una solitudine che nasce dalla malattia. Trovata questa chiave, quel mondo che mi risultava impenetrabile mi si schiuse”». Maddalena Carli, Testimonianze oculari. L’immagine fotografica e l’abolizione dell’istituzione manicomiale in Italia. Istituto per le Materie e le Forme Inconsapevoli.
«Delle immagini dei ricoverati, impressionano soprattutto i particolari: la postura contratta e arcuata delle mani, cui è riservata una lunga serie di scatti; la rigidità delle bocche; gli occhi spalancati e assenti; i volti scavati; i corpi avvolti su se stessi e quasi mai eretti…». Maddalena Carli, Testimonianze oculari. L’immagine fotografica e l’abolizione dell’istituzione manicomiale in Italia. Istituto per le Materie e le Forme Inconsapevoli.
«A partire da questo istante, i volti stessi si decompongono: non è più la follia dei Capricci, che creavano maschere più vere della verità dei volti; è una follia sotto la maschera, una follia che morde i volti, rode i tratti del viso; non ci sono più occhi né bocche, ma sguardi che vengono dal nulla e si fissano sul nulla (come nell’Assemblea delle streghe); o grida che escono da buchi neri…». Michel Focault, Storia della follia nell’età classica. Edizione Kindle, 2012.
«- Pazzo e stupido sarai tu, - gli dicevano gli amici, - e per di più rompiscatole. - Per chi vuole recuperare tutto ciò che passa sotto i suoi occhi, - spiegava Antonino anche se nessuno lo stava più a sentire, - l'unico modo d'agire con coerenza è di scattare almeno una foto al minuto, da quando apre gli occhi al mattino a quando va a dormire». Italo Calvino, L’avventura di un fotografo in Gli amori difficili. Mondadori, Edizione Kindle, 2015.
«Adesso era soddisfatto. - Bisogna ripartire di qua, - spiegò alle amiche. - Nel modo in cui i nostri nonni si mettevano in posa, nella convenzione secondo la quale venivano disposti i gruppi, c'era un significato sociale, un costume, un gusto, una cultura. Una fotografia ufficiale o matrimoniale o familiare o scolastica dava il senso di quanto ogni ruolo o istituzione aveva in sé di serio e d'importante ma anche di falso e di forzato, d'autoritario, di gerarchico. Questo è il punto: rendere espliciti i rapporti col mondo che ognuno di noi porta con sé, e che oggi si tendono a nascondere, a far diventare inconsci, credendo che in questo modo spariscano, mentre invece...». Italo Calvino, L’avventura di un fotografo in Gli amori difficili. Mondadori, Edizione Kindle, 2015.
Bibliografia
Franco Basaglia, L’istituzione negata. Baldini+Castoldi. Edizione Kindle.
Italo Calvino, L’avventura di un fotografo in Gli amori difficili. Mondadori, Edizione Kindle, 2015.
Cambridge University Press, Hugh Diamond, the father of psychiatric photography – psychiatry in pictures, 2021
Maddalena Carli, Testimonianze oculari. L’immagine fotografica e l’abolizione dell’istituzione manicomiale in Italia. Istituto per le Materie e le Forme Inconsapevoli.
Umberto Eco, Come si fa una tesi di laurea, Bompiani, Milano, 1977 (Introduzione alla II ed. del 1985).
Michel Focault, Storia della follia nell’età classica. Edizione Kindle, 2012.
Claudio Paolucci, Sfuggire ai cliché. Gli stereotipi tra enciclopedia, enunciazione e soggettività nel linguaggio. Reti, saperi, linguaggi. Fascicolo 2, luglio-dicembre 2017. Il mulino riviste web.
Libri fotografici, serie e autori
Gianni Berengo Gardin e Carla Cerati. A cura di F. e F. Basaglia, Morire di Classe. Serie Politica 10. Enaudi, 1969
Hieronymus Bosch, La nave dei folli, 1494
Pieter Bruegel il Vecchio, Margherita la pazza, 1561
Hugh Welch Diamond, Plate 27 (Seated Woman with a Bird), (c. 1855)
Jean-Louis-Théodore Géricault, L’Alienata con la monomania del gioco, 1820-1824
Francisco Goya, Two Old Men / Two Monks / An Old Man and a Monk, 1819-1823
Egon Schiele, Self portrait with lowered head, 1912 e Self portrait in a jerkin with right elbow raised, 1914
Il volto della follia. Cent’anni di immagini del dolore. Skira, 2005
Video
Nelle ultime settimane ho stilato una lista di film e serie televisive in cui compaiono personaggi che fotografano (sono quasi 90 titoli e 101 fotografз, continuerò ad aggiornarla), trovate la collezione qui. Così, se volete guardarvi un film in santa pace, avete un po’ di scelta. Questa sera penso che mi guarderò questo:
Qui ammetto di calcare un po’ la mano. Ho il dente avvelenato perché mi sembra che ad ogni aggiornamento questi due software diventino sempre più pesanti. Vero, ci sono nuove caratteristiche che possono tornare utili (o anche no), ma poco importa se il programma si impalla o consuma un sacco di risorse anche solo per le funzionalità di base. ↩