#2.9 Come l’acqua per i pesci

Scoprire più di quanto si "dovrebbe" sapere.

#2.9 Come l’acqua per i pesci
Fronte: Four-eyed fish and butterly fish swimming in the sea above a coral reef. Colour line block after a painting by H. Murayama, 1919. Fonte: europeana.eu. Sfondo: James Eades. Fonte: Unsplash.

Questo è l’ultimo articolo sugli stereotipi e il penultimo per quest’anno. Saluterò il 2022 davanti alla stufa scrivendo il riassuntone di dicembre e mangiando panettone alle amarene sciroppate. Uno dei migliori programmi per le feste che abbia mai organizzato. Ho voglia di riposare, di prendermela con calma e dilungarmi sulle piccole cose. Di “perdere” tempo, tra virgolette, perché nulla di quello che permette al nostro corpo e alla nostra mente di recuperare e ristrutturarsi può essere considerato una perdita. Anzi!

«Being able to “go beyond the information” given to “figure things out” is one of the few untarnishable joys of life. One of the great triumphs of learning (and of teaching) is to get things organized in your head in a way that permits you to know more than you “ought” to. And this takes reflection, brooding about what it is that you know. The enemy of reflection is the breakneck pace - the thousand pictures». Jerome Bruner, The Culture of Education. Harvard University Press, 1997.

C’è stato un lungo momento, quest’autunno, in cui mi sono sentita allo stesso tempo sia un po’ stupida che presuntuosa nel voler scrivere di stereotipi e fotografia. È un argomento molto complesso e delicato. Sentivo, in un certo senso, di non avere né il diritto né le capacità per parlarne. Sono temi per chi ha esperienza diretta di discriminazioni o chi fa attivismo, mi ripetevo. Avevo la sensazione di non avere niente di interessante da aggiungere al discorso, di cercare di descrivere con mille parole qualcosa di ovvio. Come scoprire l’acqua calda.

Ma forse è proprio qui che sta il nodo della questione. Per me, in questo momento, l’errore più grande è proprio non mettere mai in dubbio l’ordinario, la sostanza nella quale siamo immersi tutti i giorni.

«Fish discover water last». Roche Mamabolo, Fish discover water last, 2020.1

Farsi domande su tutto quello che riteniamo normale non è…“normale”. Al punto che può risultare anche irritante, a volte. Alcuni metodi usati nelle scienze sociali consistono nel creare situazioni anomale, diciamo, e nell’osservare le reazioni2. Questi metodi portano alla luce tutte quelle strutture invisibili, le norme non dette, che regolano e sorreggono il tessuto sociale di una certa cultura, definendone ruoli e aspettative.

«Human beings are very similar when it comes to our own “environment,” our rituals, norms, beliefs, and our identity.

We are so immersed in our “environment” that it is difficult for us to see it, just like the fish doesn’t see the water.

“Fish discover water last” is a proverb that begs us to ask ourselves a question: What do we most take for granted in our lives.

[…]

What is that thing you take for granted?

What is your water?

Water? Where is water?». Roche Mamabolo, Fish discover water last, 2020.

Quello che siamo è sempre il risultato dell’interazione di più dimensioni: biologica, individuale e sociale. Nel momento in cui nasciamo e cresciamo in una certa cultura ne assimiliamo anche le strutture, in un processo di reificazione3, che le cristallizza.

«[…] il mondo oggettivato perde la sua capacità di essere visto come creazione umana e si fissa come fattualità non umana, non umanizzabile e inerte. A questo punto la realtà sociale acquista l'oggettività propria del mondo della natura: la naturalizzazione è un aspetto intrinseco alla reificazione, nel senso che quella realtà viene data per scontata al punto tale da divenire una "realtà di fatto”». Giuseppe Mantovani (a cura di), Manuale di Psicologia Sociale. Giunti Psychometrics, 2003.

Bisogna fare attenzione ai dati di fatto. Non dico di passare il tempo a smontare ogni certezza. I modelli che abbiamo in testa, stereotipi compresi, ci aiutano a prendere decisioni e a navigare il mondo nella maniera il più possibile funzionale, secondo le proprie esperienze e capacità. Mettere in dubbio ogni cosa in ogni momento sarebbe l’equivalente di annegarci in tutta questa acqua, oltre a prenderne coscienza.

Katrin Koenning, Indefinitely. Fonte: katrinkoenning.com.

Si tratta di prendere quello che ci circonda e ci interessa, anche il concetto più assodato, per cercare di vederlo per quello che è. E poi, solo dopo, costruirci sopra, allargarlo.

«Indefinitely is a long-term work about love and an attempt at undoing distance. The work is about space created by my family's migration, and the notion that this space is not a vacuum or a void, but rather the creator of new narratives: a space of the imaginary». Katrin Koenning, Indefinitely da katrinkoenning.com.4

Un po’ di tempo fa mi sono imbattuta in Jerome Bruner, uno psicologo che nel secolo scorso ha contribuito moltissimo al progresso della conoscenza intorno al pensiero, all’apprendimento e allo sviluppo dell’identità. Viene citato soprattutto intorno a discorsi su educazione e infanzia, ma il pensiero si sviluppa nel corso di tutta la nostra vita, possiamo includerci nel discorso.

«L’intelligenza narrativa è un’intelligenza ermeneutica, interpretativa. Si tratta di una capacità che va alla ricerca del significato di ciò che accade nella vita, della conoscenza di sé e degli altri, sia come singoli sia quale complesso inserito in un determinato assetto culturale.

Bruner scrive che non sappiamo veramente tutto sullo sviluppo del pensiero narrativo e tuttavia esistono due certezze storicamente condivise intorno a esso: la prima è che i bambini debbano conoscere il patrimonio narrativo tradizionale della loro cultura, perché esso struttura e nutre l’identità personale; la seconda è che l’invenzione narrativa stimola l’immaginazione ed è perciò d’aiuto a trovare il proprio posto nel mondo, perché per questa operazione è necessario un certo grado di attività immaginativa». Bruner e il pensiero narrativo.

Come fotografa sono rimasta folgorata dall’idea di pensiero narrativo. Non mi è ancora ben chiaro il perché. Non ho ancora finito di leggere tutto quello che mi interessa a riguardo, ma credo che il motivo principale dietro questo interesse (diciamo anche ossessione), sia legato proprio al concetto di narrazione come interpretazione e ricerca di significato, nella realtà che mi circonda e in me stessa. È un argomento molto interessante, forse perché sembra un po’ togliere alla scienza l’esclusiva nel fornire spiegazioni. Almeno per quel che riguarda la mente.

«Anche gli scienziati talora credono più agli scrittori che alle loro macchine.

[…]

Lurija si mette a seguirlo, Zasetskij ha una volontà di ferro, impara di nuovo a leggere e scrive, scrive, scrive. Per venticinque anni registra non solo tutto quello che dissotterra nella caverna devastata della sua memoria, ma anche quello che gli accade giorno per giorno. Era come se la sua mano, con i suoi automatismi, riuscisse a mettere in ordine quello che la testa non ce la faceva. Come a dire che quello che scriveva era più intelligente di lui. Così, sulla carta, si è ritrovato, a poco a poco». Umberto Eco, La misteriosa fiamma della regina Loana. Bompiani. Edizione Kindle.

Qualche anno fa ho messo in piedi una carriera fotografica facendo qualunque lavoro sul mercato fosse alla mia portata. Dopo qualche tempo, circa un anno, ho cominciato a darmi una struttura proponendo servizi, soprattutto di ritratto. Un lavoro che la maggior parte dei miei conoscenti non pensava nemmeno esistesse più (cito testualmente).

Ora, come per ogni servizio o prodotto, la gente è disposta a darti dei soldi per ottenere in cambio qualcosa che non ha o che non riesce ad ottenere altrimenti. Mi ci metto anche io: non ho mai dato un euro a nessuno per qualcosa che potevo farmi tranquillamente da sola. Per la fotografia di ritratto questo vuol dire che lз clientз sono persone che: o non posseggono un qualche tipo di macchina fotografica/non la sanno usare (raro) o non si piacciono/non “vengono mai bene” in foto. C’è anche chi ti contatta per avere un ritratto proprio da te, ma all’inizio, quando hai tre foto in croce nel portfolio e ci sono decine di altrз fotografз al tuo stesso livello che lo fanno a meno (o gratis), è abbastanza difficile. Conoscenti, magari, non escludo nulla. Ogni percorso è diverso.

Quello che è successo, almeno per la mia esperienza, è che ho cominciato a ricevere contatti da persone al di fuori del “classico canone di bellezza fotografica”5 che volevano fotografie. Così ho cominciato a studiare tutto quello che potevo su dove trovare (o come creare) una luce piacevole, sulle pose e su come dirigere la persona per farla sembrare più giovane, più magra o più bella.

Non c’è nulla di male, diciamocelo, ma a un certo punto mi sono resa conto che stavo forzando le persone dentro degli stampini culturali. Un po’ perché era quello che mi chiedevano, un po’ anche perché era quello che nella mia testa voleva dire fare una bella fotografia: trasformare le persone in modellз.

E qui le cose sono diventate complicate, almeno per un po’. Ho cominciato a chiarirmi le idee solo di recente, negli ultimi due anni più o meno, dopo tante fotografie e conversazioni. Mi sono resa conto che stavo, senza volerlo, trattando le persone che fotografavo sempre più come problemi da risolvere e non come individui da osservare e ascoltare.

Come soluzione cercavo ogni volta di ritornare all’immagine stereotipata. Perché è una certezza.

Perché ogni volta che consegni una galleria dentro di te hai paura che le fotografie non piacciano. Perché fai di tutto per evitare l’ennesimo “non mi vedo”. Perché è l’insicurezza che parla. E va bene fino ad un certo punto, è adattiva, aiuta ad ascoltare e vedere in maniera attiva. Ma non quando prende il sopravvento. Perché è quella roba che ci fa fare il minimo indispensabile che pensiamo possa funzionare. E invece ci fa solo ripiegare su noi stessi.

Credo che rinchiudersi nel proprio bozzolo e nelle proprie idee nel momento in cui ci si trova di fronte a una persona da ritrarre sia una delle decisioni peggiori che si possano prendere. Si interrompe qualsiasi possibilità di relazione e comunicazione.

Di fronte a questa nuova consapevolezza ho reagito con un totale rifiuto. Ho virato di 180° in direzione opposta, cercando lo sbaglio, la bruttezza e il dolore solo per principio, perché sembrava profondo, non come tutta quell’altra roba là, superficiale. Ma non con l’intenzione di riconoscerlo e guardarlo per davvero, il che può diventare una roba terribile6.

«Keke Looking Sad, Serious, or Gloomy All the Time

Keke and I met toward the end of my photography degree, fourteen years ago. Like all the people whom I love and spend a lot of time with, he began appearing in my photographs right from the beginning: here he is sleeping, here he is running, here he is floating. At some point during my studies, however, I picked up the idea that for a portrait to be “proper” and worthy of consideration, the person in it needed to look serious. Surely if they were joyous, laughing or smiling, the picture couldn’t be “decent”. As a result, Keke would often look sad, serious, or gloomy in the photographs, even if he wasn’t feeling that way at all. How silly, I knew absolutely nothing then. Fourteen years later, it still makes us laugh». Katrin Koenning in Jason Fulford, Photo No-Nos: Meditations on What Not to Photograph. Aperture, 2021.

Negli ultimi mesi riconosco in un sacco di foto e progetti esattamente questo, un mettere in mostra il negativo, un estetizzare estremo, senza rispetto, che è un tentativo di far passare per profondo qualcosa che non è. È solo l’occasione per dare qualcosa in pasto allo sguardo dei guardoni, in cambio di cosa?

Ma ci si passa, gli errori diventano esperienza.

Ora non so a che punto sono. Mi è sempre un po’ difficile mettere a fuoco il presente di un percorso mentre ci sono sopra. Il passato, con il senno di poi, siamo tutti bravi a spiegarlo e il futuro…beh, non esiste ancora, per cui alla fine vale un po’ tutto.

Cerco di vivere ogni ritratto come se fosse unico e indipendente da qualsiasi altro, ma portandomi sempre dietro tutto il bagaglio di esperienze (tecniche, visive e umane) che mi sono costruita finora, cercando di usare lo strumento giusto al momento giusto. Ma guardando quello che ho veramente davanti, nello specifico.

Credo che sia un po’ questo il punto in cui collego la fotografia con quella che per Bruner è l’intelligenza narrativa: per prima la capacità di vedere e riconoscere gli stereotipi e il patrimonio culturale alla base del mio modo di vedere, delle mie conoscenze e della mia identità. E questo per me passa attraverso lo studio, il visitare mostre e quant’altro, scrivere questa newsletter ;p A volte scorgo cose che preferirei non vedere, ma prendere coscienza di difetti e limiti fa parte del percorso di crescita. Poi viene la parte creativa, l’ispirazione. Il provare a fare le cose diversamente, a scattare un ritratto sotto la luce del sole a picco piuttosto che all’ombra, a vedere “cosa succede se…”. Giocando con l’ovvio, srotolando e ricucendo il tessuto sociale. Mischiando tutte le cose che abbiamo imparato, le esperienze vissute, dandoci il tempo, lo spazio e l’occasione di dire qualcosa con la nostra voce.

«Pretty much everything in life has been seen, photographed, sculpted, painted before […]. All you can do then is try to respond as best you can, with all the knowledge of the world that you’ve accumulated. What you don’t want to do is copy the work of others. And what you don’t want to do is dismiss the situation because it has been photographed before. Because if something isn’t new doesn’t mean that it’s not important». Eugene Richards in Anne-Celine Jaeger, Image Makers. Image Takers. Thames&Hudson, 2010.

  1. Ho faticato a trovare la sorgente certa di questa citazione perché viene attribuita, in una forma o nell’altra, a molti personaggi più o meno famosi. La riporto come proverbio etiope, come ho trovato nel sito che ho linkato, credo sia la cosa che ha più senso.

  2. Per approfondire: etnometodologia e Breaching Experiments di Harold Garfinkel. Per approfondire in maniera un po’ più divertente qui un bel video su Youtube.

  3. «Reificazióne s. f. [der. del lat. res «cosa», nel sign. 1 sul modello dell’ingl. reification, nel sign. 2 attraverso il fr. réification]. – 1. Processo mentale per cui si converte in qualche cosa di concreto, o si viene a considerare tale, ciò che ha soltanto esistenza astratta: r. di un concetto». Da Treccani.it. Parola che vi potete giocare nel torneo di Scarabeo dell’ultimo dell’anno.

  4. Ora il sito è in aggiornamento, non ho più trovato questa serie in particolare. Si trova cercando su Google.

  5. Per intenderci: giovani, magrз e di “bell’aspetto”.

  6. Il peggior modo per rinforzare uno stereotipo e negarlo o affermare l’esatto opposto.