#3.11 Parole, parole, parole
Visual literacy e castelli in aria.
Raccontata nei minimi termini la visual literacy è l’abilità di “leggere” le immagini, ma anche di creare attraverso il linguaggio visivo1.
La visual literacy è una disciplina che copre diversi domini. Forse sarebbe più corretto dire che è un’insieme di pratiche che hanno in comune la materia prima delle immagini.
La visual literacy è solo una parte del più ampio discorso sulla media literacy, molto in voga negli ultimi anni perché, volenti o nolenti, viviamo immersi in un flusso d’informazione veicolato da tanti tipi di media diversi (immagini, audio, social, tv, AI e via discorrendo).
«Media literacy is an expanded conceptualization of literacy that includes the ability to access and analyze media messages as well as create, reflect and take action, using the power of information and communication to make a difference in the world». Media literacy su Wikipedia.
Ai tempi della mia prima connessione, accendevo il modem 56k e pagavo un tot per poter ACCEDERE a un’informazione, o utilizzare un servizio, su Internet. Venticinque anni dopo Meta mi informa che devo pagare se voglio EVITARE di ricevere certe informazioni (più tutta una serie di altre cose legati ai dati e contenuti personali, ma ora soprassediamo). In un modo o nell’altro, le tecnologie della comunicazione si intrecciano con la vita quotidiana di molte persone. Non si tratta più solo di strumenti che possiamo decidere se utilizzare oppure no.
Detto questo, facciamo un passo indietro. Partiamo dalle basi.
La literacy, che in italiano sarebbe alfabetizzazione, di solito viene accostata al grado di scolarizzazione, alla capacità di leggere e di scrivere ad un livello più o meno “alto”. Ma è anche la possibilità di avere accesso alle informazioni in forma testuale, di capirle, di analizzarle e ricordarle, di produrre nuovo testo, di trasformare i pensieri in parole, frasi e azioni. E, ancora, la literacy è l’insieme di credenze che una società possiede intorno alla scrittura e alla lettura, il valore e gli scopi che vi assegna.
«Reading, in this view, is always reading something for some purpose; writing is always writing something for someone for some purpose. Beliefs about reading, writing and their value for society and for the individual always influence the ways literacy is taught, learned, and practiced». Literacy su Wikipedia.
Associamo la parola scritta alla comunicazione, anche se non tutte le forme di scrittura devono per forza trasmettere dei dati codificati che devono servire per qualcosa (la poesia, per esempio).
Se parliamo di immagini, poi, il discorso diventa ancora più evanescente: non tutte le fotografie nascono con un messaggio al loro interno. Molte fotografie sono indeterminate, vanno nel mondo incomplete, ed è proprio grazie a questa proprietà che possono muoversi nei sistemi simbolici, caricarsi di significati, risultare interessanti a molte persone diverse. Le buone fotografie restano sempre, in un qualche modo, “aperte”, non si esauriscono in una sola lettura. Spesso il “messaggio” che portano viene costruito dal contesto e da chi guarda l’immagine. O si rivela, come una sorpresa, è un qualcosa che accade e basta2.
A volte mi chiedo se invece di pensare a “cosa voglio dire con questa immagine” non sia più importante il “cosa questa immagine mi vuole dire”. Mettere da parte per un attimo il bisogno di dover dire la propria, di affermare una posizione, per lasciarsi andare con un “non lo so”. Dimmelo tu, immagine che stai accadendo davanti ai miei occhi, cosa si sta svelando qui e ora.
La parola stampata ha rivoluzionato tutta l’esistenza dell’essere umano, non ha permesso “solo” di compattare, distribuire e archiviare la conoscenza in una forma più comoda ed efficace.
«Nobody ever made a grammatical error in a non-literate society». Marshall McLuhan, The Gutenberg Galaxy. Edizione Kindle.
L’introduzione della stampa a caratteri mobili nelle nostre società ha reso sempre più importante la parola scritta rispetto alla trasmissione orale. La locuzione latina verba volant, scripta manent, che noi oggi usiamo perlopiù per ricordare che solo quello che sta scritto è fisso, ha un valore, nella Roma antica (probabilmente) aveva un significato diverso. I discorsi circolano, sono vivi, mentre le parole scritte restano a prendere polvere.
Secondo Marshall McLuhan, uno studioso canadese del XX secolo, la stampa ha segnato il passaggio da udito a vista come senso ed esperienza primaria per la conoscenza.
Le tecnologie che utilizziamo per acquisire e trasferire informazioni ci influenzano sia come individui che come comunità. Per questo McLuhan arrivò ad affermare che The medium is the message, cioè, per dirla in soldoni, che lo strumento adottato per comunicare ha un peso e un’influenza che va oltre il contenuto che trasporta.
Quando parlava di media McLuhan non pensava solo alla televisione o alla radio, ma includeva nel gruppo anche tecnologie come la ruota e le strade, il denaro o addirittura i vestiti3.
Si arrivò a parlare dei media come estensioni di caratteristiche fisiche o psichiche di ogni individuo.
«To understand the medium of the photograph is quite impossible, then, without grasping its relations to other media, both old and new. For media, as extensions of our physical and nervous systems, constitute a world of biochemical interactions that must ever seek new equilibrium as new extensions occur». Marshall McLuhan, Understanding Media: The Extensions of the Man. Edizione Kindle.
Vi lascio qui sotto un estratto da un documentario degli anni ‘60 intitolato The Medium is the Massage4. Il video completo è disponibile su Youtube ma è un trip psichedelico di quasi un’ora, io ho fatto un po’ fatica a seguirlo. Se vi piace il genere, è visivamente interessante!
Le affermazioni di McLuhan anticipano studi ed esperimenti che si stanno svolgendo perlopiù in questi ultimi anni su argomenti come la mente estesa, l’amnesia digitale e l’effetto Google e, in generale, sugli effetti che la tecnologia ha sulle nostre facoltà cognitive (e non solo).
«Transhumanism is an intellectual movement that aims to augment the human body through use of sciences and technique.
This topic refers to everyday purposes, which are already banal, such as the use of pacemakers or smartphones. It also refers to fantasies which advocate immortality and even claim the abandonment of the body made of flesh in favor of the machine. H+ is about the present. What really exists, what we can see, where we can see it. From Switzerland to Russia, between France, Germany and Czech Republic, he has been tracking, the people – from biohackers working in garages to major labs –, the objects and sometimes the concepts related to this movement.
It is the sum of various fragments that weaves a network of meaning. There are, therefore, many defects and deformations. Gafsou testifies here of the latent violence involved in the technological transformations under way». Matthieu Gafsou, H+.
Sul Transumanesimo ci sarebbe molto da dire, ma andremmo un po’ troppo fuori discorso, perciò ritorniamo a Gutenberg.
Diversi studi di scienze sociali hanno collegato la questione oralità-scrittura a differenze nello sviluppo della memoria e dell’attenzione, così come a diversi modi di percepire il tempo e di concepire la storia.
«Alcuni autori l’hanno riletta in termini di differenza tra oralità e scrittura come modalità prevalenti della comunicazione sociale [Goody 1977]. Nel primo caso la memoria ha una coerenza rituale, è cioè depositata in riti (e in narrazioni mitologiche ad essi strettamente legate) che si tramandano secondo il principio di una integrale e meccanica ripetizione; nel secondo si può parlare di una coerenza testuale che apre lo spazio dell’esegesi e dell’interpretazione [Assmann 1992]. L’idea-chiave in queste e simili teorie è che la modernità, in virtù della discontinuità che istituisce nei confronti del passato, sviluppi una consapevolezza della storicità, del trascorrere inesorabile e irreversibile del tempo, che sarebbe sconosciuta alle culture tradizionali, immerse invece in un tempo genealogico o strutturale dominato dal mito dell’eterno ritorno. Proprio questo senso di discontinuità con il passato, avvertito sul piano storico generale come su quello generazionale e autobiografico, pone un problema di ricostruzione della memoria tramite istituzioni e pratiche sociali specifiche. Un’idea analoga si esprime nella distinzione proposta da Pierre Nora [1984] tra milieu de la mémoire e lieux de la mémoire, che sta alla base del suo noto progetto di studio sistematico dei luoghi della memoria francese. Nora, per la verità, ha in mente una discontinuità che si produce negli ultimi due secoli nella cultura di massa: ma il concetto su cui lavora resta quello del passaggio da una comunità che vive un tempo circolare ed è costantemente immersa nella memoria, tanto da non percepirla come problema e da non essere neppure consapevole della sua esistenza, a una comunità che vive un tempo vettoriale ed è ossessionata dallo sfuggire inesorabile del tempo, organizzando la propria cultura attorno alla produzione di memoria». Fabio Dei, Antropologia Culturale. Seconda edizione. Il Mulino, 2012.
Ora, quello che a me interessa di questo discorso non è tanto la divisione tra società orali e scritte. Quello che mi affascina è pensare a cosa succede nel momento in cui la vista diventa il veicolo primario di conoscenza e comunicazione.
Ma che vuoi che succeda? Succede quello che capita tutti i giorni! Viviamo nelle immagini, comunichiamo e conosciamo attraverso le immagini, conosciamo la faccia di alcune persone solo perché l’abbiamo vista su di uno schermo.
«[…] quella visiva è la modalità sensoriale più sviluppata dell'uomo: più del 50% della corteccia cerebrale risponde a stimoli visivi». Visione in Treccani.
Sappiamo che le immagini ci entrano sotto pelle, che agiscono su di noi anche quando non le percepiamo conscientemente, che sono potenti veicoli di contenuti o strumenti di propaganda. Sappiamo benissimo che non è più solo questione di literacy, ma di media literacy, della capacità di saper guardare, discernere e utilizzare tutte le informazioni che ci arrivano in ogni momento, nello stesso momento, attraverso ogni tipo di medium.
Eppure, nonostante tutto questo, qui arriviamo a dire c’è stato un tempo in cui buona parte della nostra conoscenza non passava necessariamente dagli occhi. E che vale la pena saperlo.
«Chiudendo un occhio sulla questione omerica, potremmo affermare che l’arte del racconto è nata in grembo a un cieco. In effetti nella letteratura di ogni epoca la cecità ha sempre mantenuto un canale privilegiato con la nozione di conoscenza». Elisa Ciofini, Sulla soglia della caverna – Cecità, conoscenza e diegesi nella letteratura antica e contemporanea. Il rifugio dell’ircocervo, 2020.
L’ho già scritto altre volte, ma lo ripeto (portate pazienza). L’essere immersi in un qualcosa può renderlo trasparente, come l’acqua per i pesci. Come l’aria che respiriamo, diventa automatico. Vivendo con e dentro ai media viene da sé che impariamo a conviverci e a usarli, in un qualche modo, ma questa non è una condizione sufficiente per pensare di aver esaurito l’argomento. Usiamo gli occhi tutti i giorni, e forse questo ci rende un po’ “ciechi” sulle modalità sottili in cui la fotografia agisce?
«Both monocle and camera tend to turn people into things, and the photograph extends and multiplies the human image to the proportions of mass-produced merchandise […]. The age of the photograph has become the age of gesture and mime and dance, as no other age has ever been». Marshall McLuhan, Understanding Media: The Extensions of the Man. Edizione Kindle.
La fotografia, come ogni medium, non è un veicolo neutro che trasporta l’informazione da un punto A ad un punto B senza influenzarla. La macchina fotografica permette di tradurre cose e fenomeni del mondo e della nostra esperienza in specifici oggetti: le fotografie. In quanto oggetti fisici le fotografie possono essere manipolate, trasportate nel tempo e nello spazio, e se ne può continuare a parlare anche quando il contenuto è lontano dal suo referente. Le fotografie si muovono così nel mondo orfane, staccate dalla propria origine.
Scegliendo la vista come senso di conoscenza primario si finisce con il cercare molte spiegazioni partendo proprio dai “prodotti visivi”. L’osservazione è la base del metodo scientifico. Per diversi secoli gli strumenti preferiti, se non addirittura gli unici, di chi si dedicava alle scienze naturali sono stati gli occhi.
Alcune applicazioni ottiche arrivarono solo alcuni secoli dopo, permettendo di aumentare le capacità visive nell’infinitamente piccolo o nell’infinitamente distante, oltre i limiti biologici dell’essere umano. Grandi scoperte sono state fatte grazie a queste tecnologie. E anche la fotografia tornò utile, in quanto permetteva di congelare momenti di osservazione, per poterli studiare più attentamente a posteriori, o per condividerli.
«Moreover, that the photograph is quite versatile in revealing and arresting posture and structure wherever it is used, occurs in countless examples, such as the analysis of bird-flight. It was the photograph that revealed the secret of bird-flight and enabled man to take off. The photo, in arresting bird-flight, showed that it was based on a principle of wing fixity». Marshall McLuhan, Understanding Media: The Extensions of the Man. Edizione Kindle.
La fotografia è un mezzo potente, ma non onnipotente. Si porta dietro una serie di peculiarità. La visual literacy non consiste solo nel saper parlare degli oggetti-immagini, nel produrre fotografie, ma anche nel riconoscere quali sono i suoi limiti come fonte e mezzo di trasmissione di conoscenza.
Posso prendere una fotografia e “leggerla” in tanti modi diversi: nel contenuto, nelle caratteristiche formali e tecniche, guardandola in un contesto storico-sociale, ponendomi domande sul suo utilizzo, parlando di chi l’ha scattata. Posso costruire qualsiasi tipo di discorso e, se me la cavo abbastanza con le parole, potrò risultare anche convincente.
Dopo l’invenzione della fotografia molti psichiatri e psicologi tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo pensavano di poter spiegare i comportamenti patologici o criminali praticamente solo osservando caratteristiche fisiche ed espressioni registrate attraverso le immagini.
«A constant appropriation of the other’s face, gestures, body and, ultimately, privacy and humanity takes place in the public realm. As author and photography theorist Ariella Aisha Azoulay remarks, in our era, “Everybody and everything is liable to become a photograph”». “The Best Liar Among Us”: On Photography and Psychiatry, translating illness, 2022.
Questa fiducia forse ci porta un po’ a sopravvalutare il mezzo fotografico e i suoi prodotti. Come se attraverso le fotografie sia possibile accedere a un livello di conoscenza privilegiato. È vero che, a volte, le immagini possono svelare qualcosa di inaspettato. Ma è buona cosa chiedersi, ogni tanto, quale sia il valore di queste interpretazioni. Con le parole si possono costruire dei bellissimi castelli in aria, creati seguendo i più raffinati standard di dietrologia.
«How can a sentient person of the modern age mistake photography for reality? All perception is selection, and all photographs—no matter how objectively journalistic the photographer’s intent—exclude aspects of the moment’s complexity. Photographs economize the truth; they are always moments more or less illusorily abducted from time’s continuum». Sally Mann, Hold Still: A Memoir with Photographs. Little, Brown and Company, 2015.
Nell’atto stesso di parlare si svolgono dinamiche di potere. La parola imposta, autoritaria, distrugge l’immagine perché forza la propria interpretazione su qualsiasi altra voce. E quando il discorso non si focalizza solo sul contenuto, allora magari può succedere che ogni immagine diventi uno specchio, un autoritratto di me che fotografo. Quella fotografia smette di dire qualcosa di quello che sta mostrando, ma spiega tutto di me che l’ho scattata.
Avere a disposizione un mondo così vasto e variegato e riuscire solo a continuare a girare intorno al proprio ombelico e al centro delle cose che già si sanno, trovando, alla fin fine, sempre e solo sé stess* deve essere, alla lunga, una vita molto noiosa.
«G.G.: Fotografare un paracarro, un albero, una persona... È un modo di incontrare qualcosa o qualcuno. Un modo di identificarsi con l’altro.
Senza fotografia l’incontro con l’altro è impossibile?
G.G.: No, è possibile. La fotografia ti aiuta all’incontro. È un modo per incontrare l’altro, per prendersi cura dell’altro, oltre che di se stessi. Prendendosi cura dell’altro, ti prendi cura anche di te, del tuo cuore. C’è un detto coniato da Cosimo De’ Medici: il pittore dipinge sé stesso. Sarabbe una forma di estremo narcisismo. Una sorta di gabbia che ti costringe dentro ai tuoi limiti, al recinto del tuo corpo. L’incontro con l’altro invece è fondamentale. Per me il fotografo o il pittore sono una sorta di medium. Tendono a spostarsi da stessi per entrare negli altri, nel mondo esterno. Se no che senso avrebbe fare quello che facciamo? Parlare di se stessi, alla fine, è noioso». Guido Guidi intervistato da Luca Fiore, La fotografia e l’eco dell’assenza.
Nella realtà degli strumenti meccanici ed elettronici, della tecnologia di precisione che estende le nostre facoltà, nella prospettiva del Transumanesimo, l’incontro imprevisto non trova spazio, sarebbe un fallimento del programma. I bug, gli errori, le esitazioni sono problemi. Questo è l’ambito della parola imposta, del recinto di noi stessi e dei discorsi che già conosciamo.
Il linguaggio può distruggere un’immagine, attraverso la parola imposta che crea discorsi che fagocitano e bloccano qualsiasi altra voce. Che mettono un punto, che trasformano la fotografia in un oggetto inerme, morto, che non ha più nient’altro da dire. Il tranello della literacy sta proprio nel sentirsi forti del proprio bagaglio di conoscenze e di capacità, con le risposte giuste in tasca. Quando, in realtà, si tratta solo di parole, parole, parole, soltanto parole (parole tra noi).
Ma le immagini non contengono risposte. O UNA sola risposta. Se ne può parlare, certo. Anzi, è proprio attraverso la parola “libera” che si possono creare nuove conversazioni. Molte fotografie, anche quando di fatto sono rettangolini inermi di carta o quadrati su uno schermo, non si possono fermare, “avvengono” e basta.
«L’apparizione di un’immagine, a prescindere dalla sua “potenza” e dalla sua efficacia, ci “investe” quindi ci sveste. Il nostro linguaggio allora non è eliminato dalla dimensione visuale dell’immagine ma messo in discussione, ammutolito, sospeso. In seguito, dovranno intervenire il pensiero e il sapere – molto sapere – affinché questo mettere in discussione si trasformi in un mettere in gioco: affinché davanti alla stranezza dell’immagine, il nostro linguaggio si arricchisca di nuove combinazioni e il nostro pensiero di nuove categorie. Essere davanti all’immagine significa allo stesso tempo rimettere il sapere in discussione e rimetterlo in gioco. Non bisogna avere paura di non sapere più (nel momento in cui l’immagine ci spoglia delle nostre certezze), né di sapere di più (nel momento in cui si deve comprendere lo svestimento stesso, comprenderlo in qualcosa di più vasto che concerne la dimensione antropologica, storica o politica delle immagini)». Da U. Eco, M. Augé, G. Didi-Huberman, La forza delle immagini in La condizione delle immagini. Doppiozero, 2015.
“The basic definition of visual literacy is the ability to read, write and create visual images. It is a concept that relates to art and design but it also has much wider applications. Visual literacy is about language, communication and interaction. Visual media is a linguistic tool with which we communicate, exchange ideas and navigate our complex world”. What is Visual Literacy?, visualliteracytoday.org. ↩
Apro una parentesi: in molti rami della psicologia dei giorni nostri c’è una forte tendenza al costruttivismo (o socio-costruttivismo), ovvero che gli individui costruiscono la realtà, le proprie esperienze, la memoria in maniera autonoma (o grazie a forze sociali). È un punto di vista valido ma che, reso estremo, esclude del tutto la dimensione della rivelazione, del caso e della sorpresa. In pratica esclude tutto quello che l’individuo non conosce a priori. ↩
In Understanding Media McLuhan parla della fotografia sennza mezzi termini come un bordello senza pareti.
«The Brothel Without Walls maps McLuhan’s critical insights about media theory onto contemporary photographic practice. Named after a chapter in Understanding Media, McLuhan’s 1964 book about his investigations into media and communications, the exhibition looks to McLuhan’s work to examine what his thought can tell us about the effects of photography. McLuhan wrote of the photograph as a “brothel without walls,” and described photographic images as “dreams that money can buy” […]». The Brothel Without Walls.
La fotografia è molto più di questo. Lo credo io ma immagino lo sostengano anche tutte le persone che usano la pratica fotografica per ricercare e produrre, ma anche per motivi personale, per affetto, o per ricordo. Ma, stringendo l’attenzione a certi usi in campo commerciale o propagandistico (dopotutto McLuhan si interessava di comunicazione e Mass Media, non di arte, ricerca o autorialità), la posso capire (anche se rimane un’affermazione che mi suscita una serie di sentimenti ambivalenti). ↩
The Medium is the Massage (invece di Message) non è un errore, McLuhan ha volutamente lasciato il titolo così. La motivazione è raccontata all’inizio del video che avevo postato appena sopra. ↩