#3.3 Costruire e sfumare
Ricerca, attenzione e fotografie fuori fuoco.
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Per cui, indecis*, ora o mai più! Se volete una copia stampata di Making Pictures 2022 sottoscrivete l’abbonamento annuale entro domenica 9 aprile. A meno che non vogliate andare a (rubarla) chiedere un prestito a lungo termine a chi ce l’ha già ;)
Sto lavorando a una cosa che potrebbe prendere vita l’anno prossimo. Sono sommersa da informazione grezza, e ancora ne sto raccogliendo, per cui non credo abbia senso condividere qualcosa per il momento. Mi piace fare ricerca ma, diciamocelo, a volte è anche noioso e frustrante come guardare l’erba crescere. Ho voglia di creare immagini, di averle tra le mani non dico subito pronte, ma quasi. E poi passare ad altro.
Credo non mi aiuti il fatto di essere nata perlopiù con la fotografia digitale e di sentirmi spesso addosso i rimasugli dei ritmi di lavoro di alcune commissioni commerciali, frenetici e confusi. Se metto le due cosa a confronto, con la ricerca mi sembra di stare ferma o, ancora peggio, ritornare sempre e solo sulle stesse cose, fare e disfare.
In tutto questo sto preparando un esame sulle teorie e gli strumenti della ricerca psicosociale. Un mattone che pensavo mi avrebbe dato il colpo di grazia. E invece no, anche lì ci sono degli spunti utili. Sarà che nei momenti di disperazione ogni caletta sembra un porto. Comunque, studiando come la gente fa ricerca in altri campi mi aiuta a spostare l’attenzione dal prodotto finito al processo. Diecimila sbagli nella direzione giusta.
«Any topic you choose can lead to in-depth research and interesting findings - what matters most is thus not the topic itself, but rather how you relate to it. Don’t let anyone else decide your topic for you - but at the same time, don’t be afraid to use other people’s suggestions». Dirk Vis, Research For People Who (Think They) Would Rather Create 1.1. Onomatopee 201.1, 2022.
Quando pensiamo alla ricerca forse le prime immagini che ci vengono in mente sono quelle di scienziat*, esperimenti e laboratori. Cose che vengono misurate, catalogate e confrontate per verificare o falsificare ipotesi, trovare leggi e teorie generali. Questa cosa qui, in due parole, si chiama ricerca quantitativa.
Ecco, questo è solo uno fra le tante famiglie di approcci possibili. Esistono poi altri metodi di ricerca (soprattutto in campo psicologico, antropologico e sociale) che si focalizzano invece sui casi particolari, sull’osservazione dei fenomeni così come si svolgono nella “vita vera”, fuori dal laboratorio. Uno degli scopi è preservare la ricchezza e la diversità dei dati, una parte fondamentale è proprio quella di familiarizzare a fondo con le informazioni con le quali si entra in contatto, e con tutti i possibili aspetti collegati. E questa è quella che si definisce ricerca qualitativa.
La ricerca qualitativa comprende una famiglia di approcci che fanno rizzare i capelli in testa a qualcun*, in parte perché è difficile dimostrare la validità delle ricerche, riportare numeri e statistiche.
«I metodi qualitativi, in particolare, generalmente rigettano la maggio parte dei presupposti, se non tutti, del positivismo logico e del positivismo più in generale». Dennis Howitt, Duncan Cramer, Margherita Lanz, Semira Tagliabue, Antonella Morgano, Angela Sorgente, Michela Zambelli, Metodologia della ricerca in psicologia. Quinta Edizione. Pearson, 2020.
Ma il punto, poi, è questo: non cercare una misura che sintetizzi un insieme di fenomeni, quanto creare conoscenza esplorando la ricchezza di quello con cui entriamo in contatto, includendo anche note, commenti personali e associazioni del ricercatore.
Ora: spesso si utilizzano diversi approcci per affrontare lo stesso problema, anche solo per ricavare informazione da più punti di vista. Come regola generale, comunque, i metodi di ricerca non si scelgono solo per partito preso, perché un approccio mi piace più dell’altro, ma soprattutto e in funzione dell’argomento e del problema che stiamo affrontando. Questo vale in campo scientifico, così come in fotografia.
Leggo e salvo ogni cosa mi sembri inerente all’argomento che sto trattando. Compresi i pensieri che mi vengono in mente, manciate di parole che mi vengono in mente mentre sono in auto. Poi mi prendo qualche ora tranquilla per rivedere e organizzare tutto. A volte butto via qualcosa, anche se, più che eliminarlo, lo ritiro in una cartella “cestino temporaneo” da dove può essere ripescato. E poi di nuovo da capo: raccolta dati, fotografie e organizzazione e così via, in un processo circolare. È un lavoro di costruzione, dove non esistono stratagemmi per incastrare le cose, nascondendo o sfumando quello che non funziona.
«Le fasi dell’analisi Grounded Theory non sono nettamente distinte: si tratta di un processo interattivo “avanti-indietro”. La scrittura di memo e il loro utilizzo evidenziano bene il carattere esplorativo della ricerca, nella quale i dati vengono esplorati piuttosto che descritti e suddivisi in categorie. Il memo può essere proprio come ciascuno si immagina: un note-book in cui il ricercatore annota appunti su come le categorie possono essere collegate tra loro, nel senso che esse hanno relazioni e interdipendenze. Ma il memo non deve essere qualcosa di puramente testuale […]. Il memo non deve essere completamente indipendente dai dati. All’interno del memo si dovrebbero includere gli esempi più importanti e significativi emersi dai dati, che sono indicativi e tipici degli esempi più generali. Così il memo dovrebbe contenere esempi illustrativi potenzialmente inadeguaiti o problematici, concetualizzazioni e relazioni che sono in fase di sviluppo». Dennis Howitt, Duncan Cramer, Margherita Lanz, Semira Tagliabue, Antonella Morgano, Angela Sorgente, Michela Zambelli, Metodologia della ricerca in psicologia. Quinta Edizione. Pearson, 2020.
«Qualsiasi esperienza non affiancata da strumenti critici, finisce per essere considerata naturale, con la conseguenza che non la scegliamo davvero, ma la subiamo». Riccardo Falcinelli, Critica portatile al visual design: Da Gutenberg ai social network. Einaudi, 2014.
In questo tipo di ricerca c’è il rischio vero di rimanere impantanat* nel flusso di informazione. Potenzialmente non c’è fine al livello di profondità, al numero di associazioni e ai dettagli da esplorare. E infatti il punto non è raccogliere tutto lo scibile per creare una sorta di biblioteca di Babele, ma creare dei percorsi all’interno di questo labirinto.
«Quando venne proclamato che la Biblioteca comprendeva tutti i libri, la prima sensazione fu di stravagante felicità. Tutti gli uomini si sentirono padroni di un tesoro intatto e segreto.
[…]
L’universo era giustificato, l’universo usurpò bruscamente le dimensioni illimitate della speranza.
[…]
Ci sono dei cercatori ufficiali, degli inquisitori. Io li ho visti nell’esercizio delle loro funzioni: arrivano sempre stremati; parlano di una scala senza gradini che li ha quasi uccisi; parlano di gallerie e di scale con il bibliotecario; qualche volta, prendono il libro più vicino e lo sfogliano, in cerca di parole infami. Evidentemente, nessuno spera di scoprire nulla. Alla speranza esagerata, seguì, com’è naturale, un’eccessiva depressione. La certezza che qualche scaffale in qualche esagono racchiudesse dei libri preziosi e che quei libri preziosi fossero inaccessibili, sembrò quasi intollerabile». Jorge Luis Borges, La biblioteca di Babele in Finzioni. Gli Adelphi, 2003.
Archivi e fotografie sono spesso associate alle dimensioni della memoria, del tempo e del ricordo. Come se potessimo salvare i frammenti degli eventi per noi più importanti tra i quattro confini delle nostre inquadrature, per averli sempre a disposizione. Se poi crediamo nell’oggettività di una certa immagine, ecco allora che ci troviamo tra le mani una sorta di strumento della testimonianza storica. Le tessere di un enorme mosaico, come se il passato fosse una serie di episodi che vanno intrecciati nel modo giusto per vederne il senso. Ma la struttura del tempo è molto più complessa1 e le immagini sono più meravigliose di semplici record storici.
«Le immagini di qualcosa che non è ancora accaduto - e in effetti potrebbe non accadere mai - non hanno natura differente da quelle di qualcosa che è già accaduto. Esse costituiscono il ricordo di un futuro possibile anziché di un passato che fu». Antonio Damasio, L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano. Milano: Adelphi, edizione 2021.
La fotografia è uno strumento di memoria, ma non solo. Di base consiste nell’organizzare dell’informazione all’interno di un rettangolo (o quadrato, o qualsiasi forma bidimesionale scegliate). Lo so, la sto spogliando di tutta la poesia, la relazione e la magia. Ma lasciatemelo fare. Una volta nuda, arrivati al nocciolo, possiamo aggiungerci quello che vogliamo alla fotografia, Creare associazioni e livelli di significato, virtuosismi tecnici e concetti profondi. Per me è un po’ come fissare un punto di riferimento e piano piano costruire le cose da lì, in ogni direzione e dimensione possibile, ma lasciandomi dietro come una scia di briciole di pane.
La memoria è un concetto enorme, sia come costrutto psicologico che nel senso comune. In un certo senso noi siamo (anche) la nostra memoria, interpretiamo e navighiamo il nostro passato, presente e futuro attraverso il filtro delle nostre esperienze. La memoria è essenzialmente ricostruttiva: non è una collezione di oggetti salvati nella nostra testa, che possiamo richiamare sempre uguali ogni volta che vogliamo.
I ricordi sono ogni volta presi e ricostruiti da capo, rielaborati, rinfrescati. Più richiamiamo un certo ricordo nella nostra mente, più i circuiti neurali si consolidano e più sarà facile riviverlo. Ma, comunque, non sarà mai sempre uguale. Ogni volta qualche dettaglio sarà più vivido, e qualche altra cosa rimarrà indietro, in base a dove andrà a posarsi la nostra attenzione nel preciso istante in cui siamo lì, che ricordiamo. Ogni minima variazione, da quello che abbiamo mangiato a colazione alla temperatura nella stanza, possono scatenare universi di ricordi diversi.
È questa la dimensione mille volte più affascinante della memoria: l’attenzione. Prima di tutto perché l’attenzione, quando messa in condizioni di lavorare bene, è trasparente. Inoltre è una risorsa limitata2, per cui, ad un certo punto, si mette “da sola” a fare delle scelte su cosa sia importante seguire e su cosa no.
«[…] l’attenzione non è un concetto unitario, ma riguarda, piuttosto, una varietà di fenomeni psicologici anche molto diversi fra loro […]. C’è però accordo nel considerare l’attenzione come quel processo mentale che ci permette di elaborare appieno e a livello consapevole una parte limitata di informazioni, selezionandola dall’enorme quantità di stimoli di cui veniamo a disporre attraverso i sensi (ma non solo: l’attenzione può essere rivolta anche internamente, sui ricordi o sui pensieri). Inoltre, con il termine “attenzione” ci si riferisce spesso anche alle risorse mentali o cognitive che un individuo ha a disposizione, in quantità limitata, per l’elaborazione delle informazioni e l’esecuzione di azioni. Oltre a una funzione di selezione, l’attenzione esercita anche una funzione di controllo e d’integrazione tra più tipi d’informazione, permettendoci così di agire nel nostro ambiente in modo adeguato e al momento giusto. L’attenzione opera in tutte le modalità sensoriali (anche se classicamente è stata studiata maggiormente nelle modalità visiva e uditiva), e si distingue in diverse componenti le cui funzioni sono in parte distinte, ma in interazione tra loro». A cura di Paolo Cherubini, Emanuela Bricolo e Carlo Reverberi. Psicologia generale. Cortina Raffaello, 2021.
Certo esiste una componente volontaria dell’attenzione, ma c’è sempre una sorta di ordine di priorità. Se ci concentriamo su qualcosa tutto il resto scompare ed è estremamente faticoso mantenere un livello di attenzione alto su qualcosa di specifico, per molto tempo. Specialmente se ci sono tanti altri stimoli in corso (qui dovremmo entrare nel discorso delle differenze soggettive, ma lasciamo stare per ora). Nella norma è quasi impossibile, a livello percettivo, non prestare attenzione a qualcosa, volontariamente o meno.
«Consider that it’s next to impossible to open your eyes and deliberately stare at the world unfocused. You can hold a blade of grass in front of your nose, focus on it, and the background will blur. But you’re not really seeing the background. Our brains are apparently hardwired to avoid such things». Gareth Branwyn, Figure, Ground, and All Around The Middle “Woods” of Terri Weifenbach, 2009.
Dove non c’è attenzione possiamo dire che quella porzione di mondo “non esiste”. La sindrome da negligenza spaziale unilaterale3 (o neglect) è una condizione che può colpire chi ha subito gravi lesioni o infarti cerebrali a carico dell’emisfero destro del cervello. La parte sinistra del mondo sparisce e, molto spesso, chi ne è affetto non si accorge nemmeno di questa mancanza.
«Essa ha completamente perduto l’idea di “sinistra”, per quanto riguarda sia il mondo esterno sia il proprio corpo. Talvolta si lamenta che le sue porzioni sono troppo piccole, ma il fatto è che mangia solo quello che è a destra del piatto, non le viene in mente che il piatto abbia anche una sinistra […] non ha la minima consapevolezza di sbagliarsi. Lo sa intellettualmente, è in grado di capire e ride; ma le è impossibile saperlo direttamente». Oliver Sacks, L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello. Gli Adelphi, 1985.
«This onlooker has Hemispatial Neglect, a disorder characterized by lack of awareness of one side of space. It’s not the same as being blind; someone with Hemispatial Neglect can still have very good vision. It’s not even like you’re closing one eye. In that case, you’ll still be able to see pretty much the same thing as when both your eyes are opened, though the image is slightly shifted.
In Hemispatial Neglect, half of your world becomes invisible, and you don’t even know it». Alane Lim, Half of your world is invisible: Hemispatial Neglect. Spork!, 2016.
La sindrome da neglect colpisce anche il pensiero e le immagini mentali, non solo quello che ci arriva dall’esterno. Senza attenzione non possiamo recuperare nemmeno quello che abbiamo in memoria o una sua ricostruzione.
«Neglect can even affect the imagination. In one study4, two Italian patients from Milan were asked to describe a well-known plaza in the city. When imagining themselves at one vantage point, they only talked about buildings that would have been on their right half of vision. However, when they envisioned themselves standing at a place opposite from the initial vantage point so that the buildings that they hadn’t mentioned were now in their mental view, they recalled the buildings that they had forgotten about previously. In this case, the individuals didn’t even need to see anything with their own eyes. Whether it’s a physical sighting, a dream, a memory, or a hallucination, the very concept of space changes with Hemispatial Neglect». Alane Lim, Half of your world is invisible: Hemispatial Neglect. Spork!, 2016.
L’attenzione non è solo la capacità di catturare dettagli dal mondo esterno, come se fosse un fascio di energia mentale che ci permette di amplificare anche i dettagli più insignificanti, tipo lente di ingrandimento.
Esistono diverse classificazioni dei vari processi attentivi: volontari/ involontari, sostenuta, distribuita e via dicendo. Parlando in generale, l’attenzione è proprio la capacità di cogliere tutti quello che sta fuori e dentro di noi e portarle a livello di consapevolezza.
Più ci penso e più credo che la fotografia sia prima di tutto uno strumento di attenzione, e poi (tra tante altre cose) di memoria. Fotografare per mostrare qualcosa a qualcuno che non c’era, che non può aver accesso a quell’informazione. Direzionare la sua attenzione verso qualcosa di più o meno specifico. Da questa prospettiva ogni fotografia diventa una ragnatela di relazioni, del percorso che la mia attenzione ha fatto in un preciso momento, quando ho scattato e di tutto quello che ha portato a quell’evento, in termini di esperienza inconscia e di decisioni volontarie.
E quando ti mostro una fotografia spero che tu colga i miei stessi percorsi di ordine. Oppure da lì ricostruirai un’altra immagine, nonostante gli stessi elementi formali.
In fotografia (e nelle arti visive in generale) esistono moltissime regole che aiutano a direzionare l’attenzione dell’osservatore. La composizione, l’uso della luce e dei colori. Tutto sommato le basi si imparano abbastanza in fretta. Queste sono componenti formali, che guidano l’attenzione visiva. Per cui, ad esempio, l’oggetto più luminoso tenderà a tirare l’occhio dalla sua parte, o le zone dove c’è un forte contrasto. I colori più accesi rispetto alle tonalità più tenui. I volti umani attirano l’attenzione più degli oggetti, e via dicendo.
«Invece nella pittura rinascimentale italiana la luce è individuata con una sorgente e un raggio di incidenza precisi che crea delle ombre e valorizza i volumi, inoltre ogni cosa viene unificata dai raggi visivi della prospettiva. Lo spazio, che per la pittura quattrocentesca italiana è perfettamente misurabile e chiaro (perché risponde a regole scientifiche) e permette una visione totale […]». Geometrie Fluide, La pittura fiamminga del Rinascimento.
Il fatto che esistano delle regole e delle norme molto precise non vuole dire che siano universali e che si possano adattare a qualsiasi tema o soggetto. Oppure che ogni soggetto si adatti solo ad un certo tipo di approccio secondo cui un ritratto è tale se ha certe caratteristiche, la fotografia di paesaggio altre, la documentaristica altre ancora. Le definizioni non contengono mai tutte le caratteristiche del reale che trasportiamo nelle nostre immagini, ma questo non significa che dobbiamo modificare il nostro operato perché si infili bene in una categoria. Anzi dovrebbe essere il contrario.
Ci sono immagini dove l’attenzione viene guidata in maniera precisa mentre in altre si lascia più libertà al contributo di chi osserva.
«When we look at a photograph (or any work of art, for that matter), we can’t help but look to the photographer to tell us what we’re supposed to pay attention to, what’s important, what’s figure and what’s ground. A dominant theme in Terri’s work has always been to subvert that perceptual desire». Gareth Branwyn, Figure, Ground, and All Around The Middle “Woods” of Terri Weifenbach, 2009.
Un approccio non è meglio dell’altro, dipende dai casi. Ci sono occasioni in cui è necessario che quello che vogliamo mostrare arrivi in maniera decisa, altre volte, invece il bello è perdersi nei dettagli.
«Nella pittura fiamminga al posto della visione sintetica e globale tipica dell’arte rinascimentale, con un punto di vista unico a cui si sottopongono tutti gli elementi della visione, prevale una concezione atomistica, non c’è un unico punto di vista prospettico, ogni elemento è osservato analiticamente e singolarmente, poi associato agli altri in una miriade di dettagli. Il fascino di queste opere sta proprio in questa ricchezza di elementi da osservare, scoprire e ammirare e nella gamma molto ampia dei colori brillanti. Nei particolari spesso si rivelano dei simboli pieni di significato e brani altamente poetici.
Fondamentale, per l’arte fiamminga, è la luce che si distribuisce in maniera uniforme nella scena rappresentata e unifica tutto. Invece nella pittura rinascimentale italiana la luce è individuata con una sorgente e un raggio di incidenza precisi che crea delle ombre e valorizza i volumi, inoltre ogni cosa viene unificata dai raggi visivi della prospettiva. Lo spazio, che per la pittura quattrocentesca italiana è perfettamente misurabile e chiaro (perché risponde a regole scientifiche) e permette una visione totale, nella pittura fiamminga è indefinito e pluridirezionale, sembra cambiare continuamente all'interno di un quadro come quando ci si muove. Geometrie Fluide, La pittura fiamminga del Rinascimento.
Inoltre, la nostra attenzione non segue solo gli stimoli visivi. E questo è il bello e anche un po’ la sorgente di qualche fraintendimento e delusione, magari. L’attenzione visiva è solo uno dei processi che intervengono quando guardiamo e creiamo le immagini. Siamo sempre, in ogni momento, anima e corpo tutto insieme, e la nostra attenzione è più complessa di un sistema di sensori che reagisce a luci, forme e colori.
Le nostre esperienze, gli stati d’animo e le conoscenze influenzano tutti i processi attentivi. Se guardiamo la fotografia di un gruppo di persone, magari non ci diranno nulla. Ma se in quel gruppo di persone riconosciamo una persona che amiamo (o odiamo) non potremo fare a meno di vederla anche se non è perfettamente illuminata o è messa un punto sfavorevole della composizione. L’attenzione cerca di agganciarsi a qualcosa che conosce, qualsiasi cosa, per organizzare l’informazione e cominciare a costruire del senso. E questa è una cosa con la quale possiamo giocare quando fotografiamo.
«Aesthetically, Terri was drawn to the woods because of the profusion of visual signals it offered, the density of line, the layering of color and texture, the sheer overwhelming amount of information she found there. If she’s played with figure-ground relationships in the past by hyper-separating figure from ground, in this series, she teases out more of a middle ground, an aesthetic interzone at the edge of clarity and confusion, meaning and noise. There’s an equanimity to a lot of these photographs. Your eye goes everywhere and nowhere, images wash over you. They’re atmospheric while also conveying a clear sense of place. And season. Gaze at them long enough and you’ll also discover “Easter eggs,” hidden anchorage, pathways, fence lines, windows». Gareth Branwyn, Figure, Ground, and All Around The Middle “Woods” of Terri Weifenbach, 2009.
Parlando di attenzione ho una brutta abitudine da confessare. Premessa: in genere chi fotografa “giusto per” o chi ha appena iniziato tende a mettere tutta la sua attenzione nel soggetto e pochissima o niente nel resto dell’inquadratura. Per cui in qualche modo quello che interessa nella fotografia c’è, mentre tutto il resto ci finisce dentro un po’ alla rinfusa. Il risultato può essere molto interessare e, in alcuni casi diventa anche una scelta. Nel senso che chi fotografa lavora su questo linguaggio dei dettagli e del tutto.
Ma non è questo il mio caso e secondo organizzare lo spazio in modo che qualcosa di interessante e inaspettato entri nelle nostre immagini è diverso da cercare di coprire degli errori con giustificazioni pseudo-artistiche.
Quando ho iniziato a fotografare ricordo che la cosa che mi ha colpito più in assoluto è stata la profondità di campo. Avevo trovato un modo per silenziare o perlomeno ammorbidire tutto quello che non era il soggetto di mio interesse. Per cui grandissime aperture focali e via. Valanghe di immagini da cestinare perché, nella paura di includere nella mia attenzione perfetta e focalizzata sul soggetto un qualche elemento di disturbo, alla fine eliminavo anche quello.
Mi sento un po’ scema a scriverlo, ma ho rinforzato talmente tanto quest’abitudine ad aprire tutto il diaframma quando “ommiodio-ora-cosa-mi-invento” che ad un certo punto ho dovuto mettermi lì e reimparare a mettere a fuoco praticamente da zero. A organizzare tutto quello che vedo nell’inquadratura. La cosa più buffa, poi, è che con l’esperienza ho capito di trovarmi molto più a mio agio con tutti quei generi di fotografia che richiedono un’attenzione più diffusa (come il ritratto ambientato, per esempio), rispetto ai generi che richiedono un’attenzione selettiva precisa e tempi di reazione velocissimi (come la fotografia sportiva. Per cui, in un certo senso, per un po’ di tempo ho affossato quello che poteva essere un mio punto di forza, invece di valorizzarlo.
La cosa che secondo me rende speciale la fotografia è il suo rapportarsi con il reale. Anche quando è completamente staged, o un’immagine di finzione, resta comunque un mondo che si svolge di fronte alla macchina fotografica ed è un peccato limarlo. Con questo non intendo che le uniche fotografie buone siano solo quelle tutte perfettamente a fuoco, eh. Si tratta di costruire un percorso per l’attenzione, fosse anche lasciando solo alcuni indizi che l’osservatore potrà usare come vuole, non sfumare per pigrizia o timore.
«Which is to say that what might suffice is not given, it is not a fact lying around for us to discover. This is why we are metaphysicians in the dark. The only light with which we might view objects has to be kindled by us, by our activity. So, the darkness here is not at all frightening, it is rather that if we are in the dark, then it is a question for us of finding what will suffice, what Stevens calls “the finding of a satisfaction”». Simon Critchley, Things Merely are: Philosophy in the Poetry of Wallace Stevens. Routledge, 2005.
«Well, shit: of course: things – in all their recalcitrant thusness – are not apt to play along with one’s internal struggle to express; they’re not even going to observe the boundaries thereof. But the sheer obstinance of the world can spur us on to greater heights». Tim Carpenter, Falseness close to kin. TIS books, 2017.
A proposito di tempo: Carlo Rovelli, L’ordine del tempo. Adelphi, 2017. ↩
«What information consumes is rather obvious: it consumes the attention of its recipients. Hence a wealth of information creates a poverty of attention, and a need to allocate that attention efficiently among the overabundance of information sources that might consume it». Herbert Simon. ↩