#3.7 Perdersi con intenzione
E ritrovare la strada per caso.
Mi piace pensare che queste parole vi raggiungano mentre siete in un bel posto. Vicino al mare, in mezzo a un prato o sul balcone a prendere un pochino di aria fresca.
Ma forse siete in coda alla posta. O siete in piedi al binario aspettando un treno stracarico di pendolari e già in ritardo.
Si, mi piace immaginarvi nei posti e nei momenti migliori delle vostre giornate. Ma è altrettanto probabile che stiate sgomitando in quelle che David Foster Wallace chiamava le trincee quotidiane dell’esistenza da adulti.
In un modo o nell’altro ci siamo dentro tutt*, scambiandoci missive che iniziano con “spero che questa mia vi trovi bene”, “date una carezza alla nonna” e “siete sempre nei miei pensieri”.
«Ci sono due giovani pesci che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce anziano che va nella direzione opposta, fa un cenno di saluto e dice: – Salve, ragazzi. Com’è l’acqua? – I due pesci giovani nuotano un altro po’, poi uno guarda l’altro e fa: – Che cavolo è l’acqua?
[…]
Il succo della storiella dei pesci è semplicemente che le realtà piú ovvie, onnipresenti e importanti sono spesso le piú difficili da capire e da discutere. Detta cosí sembrerà una banalità bella e buona, ma il fatto è che nelle trincee quotidiane dell’esistenza da adulti le banalità belle e buone possono diventare questione di vita o di morte […]». David Foster Wallace, Questa è l’acqua. Edizione Kindle.
Alcune delle mie trincee sono dei labirinti. Labirinti nei quali mi sono infilata volontariamente quando mi sono rimessa a studiare. Ricevere e ricordare informazioni è solo una delle fasi dell’apprendimento, forse addirittura quella più facile.
Imparare è cambiare: procacciamo nozioni che ci fanno fare esperienze, che modificano i nostri comportamenti e che a loro volta cambiano il nostro modo di percepire il mondo. E così via1.
Quando cala l’oscurità questi labirinti diventano luoghi oscuri e terrificanti dove il mio riflesso è quello di una persona estranea. È vero che “prima o poi il sole tornerà a sorgere”, ma pensarlo non è un granché utile. Vi siete mai persi in montagna in mezzo alla nebbia, o in un bosco di notte? O in una città straniera in mezzo ai grattacieli e senza mappe? Di sicuro da qualche parte ci sarà una stanza calda o un posto dove mangiare qualcosa. O un centro informazioni, almeno. E si, potrebbe anche andare peggio. Ogni labirinto ha le sue uscite, è vero. Ma quando ci siamo dentro conta solo quello che c’è ora.
«Poi riflettei che tutte le cose capitano a ciascuno esattamente, esattamente adesso. Secoli di secoli e solo nel presente succedono i fatti […]». Jorge Luis Borges, Il giardino dei sentieri che si biforcano in Finzioni. Gli Adelphi, 2003.
Per me iniziare un progetto fotografico è un po’ come infilarsi in un labirinto. Può essere gigantesco e intricato o piccolo e semplice (ma non senza le sue insidie). Dipende anche da disposizioni personali, dallo stile che adottiamo per esplorare il mondo, da condizioni contestuali e via dicendo.
Possiamo vagare senza meta aspettando di trovare qualcosa, oppure muoverci seguendo un metodo o sfruttando uno stratagemma.
Sono architetture che possono mettere paura. Ma il grosso vantaggio che distingue alcuni2 labirinti della mente da quelli dello spazio è che possiamo decidere, ad un certo punto, di averne avuto abbastanza e uscirne. Tirare una riga e mettere un punto alla questione. Stampare le fotografie, pubblicarle, farle vedere al mondo intero o chiuderle in un cassetto e non pensarci mai più. Non è che siamo davvero fisicamente bloccati da qualche parte, dopotutto!
Dovrebbe essere facile tirarsene fuori.
In teoria.
«Forse piuttosto che parlarvi di come ho scritto quello che ho scritto, sarebbe più interessante che vi dicessi i problemi che non ho ancora risolto, che non so come risolverò e cosa mi porteranno a scrivere [...]. Alle volte cerco di concentrarmi sulla storia che vorrei scrivere e m’accorgo che quello che m’interessa è un’altra cosa, ossia, non una cosa precisa ma tutto ciò che resta escluso dalla cosa che dovrei scrivere; il rapporto tra quell’argomento determinato e tutte le sue possibili varianti e alternative, tutti gli avvenimenti che il tempo e lo spazio possono contenere. È un’ossessione divorante, distruggitrice, che basta a bloccarmi». Italo Calvino, Lezioni Americane. Sei proposte per il prossimo millennio. Mondadori, 2016.
Poco più di un anno fa pubblicavo qui dentro un articolo con un elenco generico di letture estive (sempre valido, se ve lo siete perso lo trovate qui). Ho una lista di spunti anche quest’anno, ma è tematica.
Iniziare una ricerca fotografica a volte è un po’ come perdersi, ma non per sbaglio. Lo si fa apposta, con intenzione, per esplorare, conoscere, scoprire e creare qualcosa di nuovo. Un po’ lo si fa anche per cambiare, magari. O anche solo per farlo, senza chiedersi come e quando questa ricerca sarà spendibile sul mercato3.
Ogni tanto l’interesse diventa un chiodo. Che può essere un bene, perché si lega alla motivazione. Ma può diventare anche una fissazione nel raggiungere qualcosa di “speciale”, che solo noi pensiamo di riuscire a trovare. Come se il labirinto contenesse chissà quale tesoro nascosto, e noi ci buttiamo sempre più in profondità, indossando il paraocchi e smettendo di guardare a quello che abbiamo davvero di fronte per raggiungere il fantasma di quello che abbiamo in testa.
«“La profondità va nascosta. Dove?Alla superficie”. E Wittgenstein andava ancora più in là di Hofmannsthal4 quando diceva: “Ciò che è nascosto, non ci interessa”». Italo Calvino, Lezioni Americane. Sei proposte per il prossimo millennio. Mondadori, 2016.
Le strade spesso si ritrovano un po’ per caso. Che non è sempre e solo fortuna, ma è la nostra capacità di restare attenti e di cogliere gli stimoli, anche quando deboli.
Altrimenti rischiamo di fare la fine di quel naufrago della barzelletta5, che manda via tutte le barche che cercano di soccorrerlo mentre aspetta che Dio risponda alla sua richiesta di aiuto.
Ecco, qui sotto trovate alcuni dei salvagenti che mi hanno tenuta a galla nei mari tempestosi del dubbio. Alcuni pezzetti del mio personalissimo filo d’Arianna. Sono convinta che ognun* debba fabbricarsi il suo, ma qualche spunto non fa male.
Le rovine circolari (Finzioni) - Jorge Luis Borges
Borges è il dio dei labirinti di parole. Finzioni è una raccolta di racconti che intersecano narrativa e filosofia, un libriccino abbastanza breve di quelli che si leggono in qualche ora. L’ho iniziato a dicembre e finito qualche giorno fa, chiedendomi, di tanto in tanto, cosa stessi leggendo.
Però bello. Forse qualche racconto più di altri, ma è un libro scritto a metà degli anni ‘40 del secolo scorso, perciò ci sta.
Le rovine circolari raccontano di un mago e dei suoi tentativi di creazione. Come per tanti testi di Borges tutte le critiche sovrappongono decine di temi e significati. Cosa intendesse lui per davvero non possiamo chiederglielo. Ma a me ricorda tantissimo la sensazione che si prova quandi si cerca di dare una forma a quello che si ha in testa.
«Voleva sognare un uomo: voleva sognarlo con minuziosa completezza e imporlo alla realtà. Quel progetto magico aveva esaurito l’intero spazio della sua anima; se qualcuno gli avesse domandato il suo stesso nome o qualunque tratto della sua vita anteriore, non sarebbe riuscito a rispondere». Jorge Luis Borges, Le rovine circolari in Finzioni. Gli Adelphi, 2003.
Night Procession - Stephen Gill
Questo lavoro mi è venuto in mente mentre scrivevo del sentirsi pers* come di notte nel bosco.
«In March 2014, my family and I moved from east London to rural south Sweden. I understood that these new surroundings would inform my work in very different ways and that nature would play a key role. I was looking forward to making work that did not feel restricted and suffocated by modern photographic technology nor would make an inaccurate projected impression of the natural landscape we had become part of.
On my many walks, I soon came to realise that this new, apparently bleak, flat and open landscape was in fact teeming with intense life. Small clues appeared during daylight hours that helped me understand the extent of activity during the night. Clusters of feathers, animal footprints of all sizes showing regular overlapping routes, gnawed branches, eggshells, ant hills, nibbled mushrooms and busy snails and slugs working through the feast provided from the previous night
I started to imagine the creatures in absolute darkness on the forest floor driven by instincts and their will to survive. I imagined them encountering each other. I thought of their eyes – near redundant in the thick of the night – and their sense of smell and hearing finely tuned and heightened». Stephen Gill, Night Procession.
Research For People Who (Think They) Would Rather Create 1.1 - Dirk Vis
Un altro libro piccolo (meno di 150 pagine con le figure) ma bello denso. Non è un manuale nel senso stretto della parola, forse più uno strumento che parla di ricerca artistica, documenti di ricerca, processo creativo. Gli esempi spaziano dall’arte visiva, alla scrittura, alla performance e molto altro. Aiuta a togliersi un po’ di dosso la sensazione del star facendo le cose nel modo sbagliato e a scoprire nuovi approcci a temi molto diversi.
«The whole point of conducting research is to come up with new findings - if you already know where you want to end up, you are not developing a research document, but in fact doing something else. Planning to find out something you don’t know yet can be achieved by leaving enough time open for surprises. You will find that your thoughts have a weird habit of also developing when you are not busy with them: in between work sessions, while you are doing the dishes or just walking around. It’s much more efficient to work in many short bursts than to try to cram everything into the last month before the deadline. Perhaps most importantly, do not wait with writing or documenting until after you have digested all of your source materials, but start taking notes immediately, in any way, shape or form.
Otherwise you may well keep collecting forever and never get started with ordering». Dirk Vis, Research For People Who (Think They) Would Rather Create 1.1. Onomatopee 201.1, 2022.
La storia dei miei denti - Valeria Luiselli
Questo è un romanzo piacevole e anche scorrevole, ma non banale. Al di là della storia, quello che ho trovato più interessante è il modo in cui il libro è stato creato. In sostanza è il risultato di una continua collaborazione, un esperimento sociale.
Nel 2013 Luiselli viene incaritata di scrivere il catalogo per la mostra The Hunter and The Factory che si sarebbe tenuta nella Galleria Jumex, alla periferia di Città del Messico. Ora, la collezione Jumex è sostenuta dalla fabbrica di succhi Jumex e Luiselli si ritrova a far convivere la realtà dell’arte con quella del mondo operaio messicano. La sua soluzione è di scrivere per i dipendenti della fabbrica, mandare di volta in volta i capitoli del racconto per farli leggere, raccogliere commenti e impressioni e usare quelli per continuare la narrazione. Loro leggevano e lei ascoltava.
«“E perché non riesci a scrivere secondo te?”
“Non lo so. Credo di avere terrore dell'irrilevanza.”
“L’irrilevanza?”
“Ci sono troppe cose” proseguì con tono da malato cronico “ci sono troppi libri, troppe opinioni. Qualsiasi cosa io scriva non farà altro che andare ad aggiungersi alla grande pila di immondizia che ogni persona lascia dietro di sé.” “Beh, in effetti. Per questo io faccio il banditore d’asta.”
[…]
“Arriveranno da soli. La cosa importante è raccontare storie del quartiere. Se c’è una storia, c’è gente che viene ad ascoltarla.”
“Non ne sarei tanto sicuro.”
“Non è il tuo mestiere raccontare storie?”
“Sì.”
“Beh, credici un po’, no?”» Valeria Luiselli, La storia dei miei denti. La nuova frontiera, 2018.
Fotografia e inconscio tecnologico - Franco Vaccari
Letto diversi anni fa, sono andata a riprenderlo quando è scoppiata la questione dell’intelligenza artificiale. Quel giorno avevo mille dubbi su quanto valesse la pena continuare con la fotografia. Sentivo di sì, ma non sapevo darmi dei perché. Apro il libro a una pagina a caso e mi ritrovo davanti la citazione qui sotto.
«Io uso la fotografia come azione e non come contemplazione e questo comporta una negazione dello spazio ottico a favore dello spazio delle relazioni». Franco Vaccari (a cura di Roberto Valtorta), Fotografia e inconscio tecnologico. Einaudi, 2011.
Bam. La fotografia come relazione.
Forse questo libro ha molta importanza per me per come ho trovato questa citazione quel giorno, stile apparazione divina. Ma va bene così. Come dicevamo, alcune strade si ritrovano per caso.
Disabilità e bellezza. Generare significato nella relazione con l’altro - Fabio Comunello e Marzia Settin
Questo l’ho scoperto mentre lavoravo su altre cose, ma per me è importante per il discorso della relazione. Nell’ “interazione fra due esseri umani non ci sono solo passaggi di informazioni […] nel contempo avvengono scambi di sensazioni, emozioni e sentimenti”.
È un saggio professionale di quelli che di solito si utilizzano per la divulgazione verso operator* e student* del settore psico-sociale, quindi forse non è proprio il primo libro che verrebbe in mente a chi lavora con la fotografia. Ed è proprio per questo che lo inserisco.
Se lavorate a progetti che ruotano intorno a queste dimensioni (anche a livello personale) e volete “perdervi con intenzione” leggendo qualcosa di non strettamente fotografico, questa secondo me è un’ottima deviazione.
«La bellezza del diamante non è una proprietà della sua materia (non essendo altro che un pezzo di carbon fossile), non appartiene al diamante stesso, ma al raggio di luce che quello rifrange. Quel medesimo raggio di luce, riflesso da un oggetto brutto, non procura nessun gradimento estetico e se non viene rifranto da nulla non produce impressioni di sorta. Questo significa che la bellezza non appartiene né al corpo materiale del diamante né al raggio di luce che lo attraversa ma è un prodotto di ambedue nella loro relazione reciproca». Fabio Comunello, Marzia Settin, Disabilità e bellezza. Generare significato nella relazione con l’altro. Erickson, 2021.
The Garden - Siân Davey
«Everyone has a place in our garden. I am the garden. Those who enter are the garden. Without distinction, without separation». Siân Davey, The Garden.
« “Why don’t we fill our back garden with wildflowers and bees, and the people we meet over the garden wall – we’ll invite them in to be photographed by you.” This is what my son Luke announced in the kitchen, midwinter, our back garden abandoned for at least ten years. I was sitting at the kitchen table, navigating a family deep in crisis.
What came next was a pilgrimage: an on-going act to cultivate a space grounded in love, a reverential offering to humanity. This is what became The Garden». Siân Davey, The Garden.
Argomento a parte: ippocampo e memoria. L’ippocampo è una delle strutture principali che oggi si pensano collegate all’apprendimento e alla formazione della memoria. Sto andando un po’ fuori dal discorso principale, ma il video è molto ben fatto. ↩
Ci ho riflettuto molto su come scrivere questa frase perché si potrebbe aprire un intero discorso sui labirinti della mente e su come, a volte, si presentino in forme dalle quali non è così semplice uscire. Ma poi andremmo a toccare per forza degli argomenti clinici e non è questo il luogo adatto. ↩
A questo proposito mi viene in mente Barbero che parla della scuola in questo video. ↩
Hugo von Hofmannsthal ce l’aveva particolarmente con gli intellettuali snob, tanto da dire che solo gli stupidi e i poveri di spirito aspirano alla profondità cercandola nel loro profondo e non alla superficie. ↩
La barzelletta la ricordo da La ricerca della felicità:
«C'è un uomo in mare che annaspa e sta per affogare, si avvicina a lui una barca e gli chiede: serve aiuto? e l’uomo: no, dio mi salverà!
passa una seconda barca e dice: serve un mano? e l’uomo di nuovo:no, dio mi salverà!
Dopo poco l'uomo muore e va in paradiso e vedendo dio gli chiede: Dio ma perchè non mi hai salvato? e dio gli rispose: io ti ho mandato due barche stupido!». ↩