#4.1 Anno nuovo, vita nuova
Fletto i muscoli e sono nel vuoto.
Buon 2024!
Con questo articolo inauguriamo ufficialmente il "nuovo" Making Pictures. Niente grandi discorsi d'apertura, le cose importanti dovrei averle già scritte nell'ultima email che ho inviato da Substack. Solo un piccolo promemoria sui cambiamenti più significativi:
- non esistono più i livelli di abbonamento.
- Gli abbonamenti attivi continueranno ad esserlo fino alla scadenza. Ho disattivato i rinnovi automatici e tengo traccia di tutto "alla vecchia maniera", su carta.
- Chi ha diritto alla copia stampata 2023 (perché ha rinnovato un abbonamento annuale, o l'ha acquistato dopo il 31/03/2023) la riceverà verso inizio febbraio. Vi contatterò direttamente via email per confermare i dettagli di spedizione.
- Chi non ha diritto alla copia stampata 2023, ma vorrebbe acquistarla, potrà farlo fino al 31/03/2024. Vi aggiornerò sui dettagli di pagamento e spedizione una volta che le copie saranno pronte, ma potete iniziare a prenotarvi scrivendomi via email info@florianariccio.com.
- Per qualunque dubbio, problema o domanda contattatemi: info@florianariccio.com.
Se avete fatto già un giro qui dentro forse avrete notato che non ci sono molte differenze con la piattaforma precedente. Niente effetti speciali, fuochi d'artificio o chissà che. Ho scelto un tema simile alla situazione precedente perché già la migrazione è stata impegnativa. Non è detto che in futuro non faccia dei cambiamenti, ma per il momento va bene così.
Se dalla vostra parte non ci sono stati (quasi) cambiamenti, dal mio lato, invece, le cose sono migliorate, soprattutto in termini di gestione dei contenuti e dei dati. Qui non pubblico gratis, ho dei costi per hosting e funzionalità. Ma per me ha senso pagare, quando questo mi garantisce un trattamento corretto. Tanto per fare un esempio: per migrare gli articoli e gli indirizzi email ho dovuto dimostrare al team di Ghost chi fossi, cosa avrei fatto e da dove arrivavano i dati. È stato un impegno in più, certo, ma è il genere di cose che si fa volentieri quando ci si tiene a quello che si fa, no?
Bene, sono già andata lunga. D'altronde, "parte da trentadue metri la Serbelloni Mazzanti Viendalmare...", no? Che s'inauguri Making Pictures!
Negli ultimi due anni qui dentro abbiamo toccato tantissimi argomenti: processi cognitivi, stereotipi, linguaggio visivo, narrativa, fattori soggettivi e sociali, storia e cultura. E molto altro ancora. Un minestrone di elementi che sono tutti lì con me, in qualche modo, quando fotografo. Questa è la mia esperienza, ma mi piace pensare che, di tanto in tanto, ci siano punti in comune con chi passa da queste parti. Magari pure qualcosa di nuovo o utile.
Quest'anno farò qualche cambiamento anche sui contenuti. Finora ho dedicato il 90% delle mie energie a studiare e fare ricerche, e il 10% a fotografare sul serio. Mi sarebbe piaciuto mandare avanti teoria e pratica in parallelo, ma ho capacità limitate. Alla fine, tra esami e lavoro, le cose sono andate così, e non mi lamento.
Ora mi mancano solo due esami e sto iniziando la tesi. Sto cercando di legarla in qualche modo a un lavoro fotografico. Non so ancora come, ma il relatore sembra entusiasta, perciò avanti tutta, e al limite correggiamo la rotta in corsa.
Posso (finalmente) invertire la situazione: passare più tempo a fotografare che a studiare! Il che è magnifico, ma significa anche che i prossimi mesi saranno un po' più frenetici e non penso riuscirò a mantenere lo stesso passo con i contenuti di Making Pictures. Gli articoli saranno più brevi, concentrati più sulla pratica che sulla ricerca. Seguiranno il lavoro, ma senza essere un diario "dietro le quinte": parlerò di riferimenti, autori e ricerche senza condividere nello specifico che il tal giorno ho fatto questo, piuttosto che quell'altro (a meno che non abbia senso nel discorso). Ma abbiamo un anno per parlarne, per questo mese partiamo con calma.
Ricordo che un anno fa, in questo stesso periodo, scrivevo di buoni propositi.
Visti tutti i cambiamenti, come motto del 2024 scelgo Anno nuovo, vita nuova. Mi piace partire dai cliché.
Come sottotitolo tengo "fletto i muscoli e sono nel vuoto" perché è così che mi sento ogni gennaio. Sull'orlo di un baratro, a fissare il vuoto di tutto quello che non so, che mi spaventa, che non posso controllare.
Ma, a differenza del 2023, in questo abisso io non mi ci sento più tirare dentro, schiacciata dal peso di tutti i buoni propositi. Non mi sento nemmeno in grado di volare perché, non importa quanto una provi a ignorarle, complessità e pensatezza rimangono ben ancorate a corpo e mente.
In Al di là del bene e del male Nietzsche scriveva che "quando guardi a lungo in un abisso, anche l’abisso ti guarda dentro" e che "chi combatte contro i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro". Forse sono diventata un po' mostro, o un po' abisso. O una roba tipo Emmental, un formaggio con i buchi, non lo so. Sta di fatto che quest'anno il vuoto mi è familiare. E quando qualcosa entra nel nostro quotidiano spesso perde un po' di pesantezza, diventa qualcosa con il quale possiamo giocare.
Inizio il 2024 cambiando prospettiva, prendendo la fotografia seriamente meno sul serio. Giocare vuol dire far circolare l'aria, rimescolare significati, e per questo c'è bisogno di spazio di manovra. Il vuoto crea potenziale per l'azione, l'immaginazione e il desiderio.
Le immagini sono ambigue, creano dei vuoti, ed è proprio questo il caso in cui la fotografia acquisisce potenza. Si dice spesso che la fotografia sia un linguaggio, è vero, ma è solo uno dei modi possibili con cui possiamo parlarne. Un metodo di analisi "preso in prestito" dalla semiotica, che vede le fotografie come contenuti ed elementi da studiare nei minimi termini, un po' come un testo.
Ma posso anche guardare alle fotografie come prodotti culturali, posso osservare che effetto hanno su diverse persone, o come vengono costruite e utilizzate, per quali scopi. Posso prendere nota di come mi fanno sentire, se mi colpiscono oppure no. Più allarghiamo il cerchio, più possibilità abbiamo per mettere in ordine, e infine esprimere, i nostri pensieri. Di partire da un'immagine e dai suoi vuoti, per riempirli con qualcosa, e farla un po' nostra. Un po' come per osmosi, il vuoto scompare, ritorna l'equilibrio, e tutto ha senso.
E se, invece, il vuoto rimanesse vuoto?
Molta della psicologia degli ultimi decenni è concentrata sul costruttivismo e sul socio-costruttivismo: gli individui sono agenti che costruiscono il senso sulle cose e su loro stessi partendo dall'ambiente in cui sono immersi, creando, di volta in volta, realtà diverse. Non esistono baratri. In un senso estremo, non esiste nulla, tutto è un nostro prodotto. Un vuoto nel senso, qui, ha comunque senso, è funzionale a qualcosa, perché è una pausa, serve a separare degli elementi diversi, a dare ritmo, e via discorrendo.
Prima di Natale il mio relatore mi ha detto "pensi alle buone fotografie come quelle che non si lasciano guardare". Ci ho pensato. E sono ancora qui che ci penso, a dire il vero. Vorrei riuscire a fare il compitino, riempire il buco della questione con tutto quello che ho studiato, per contattare di nuovo il professore e andare avanti con il prossimo capitolo. Ma la verità è che, dopo un mese, sono ancora qui, a girare intorno a questo buco. E più lo guardo più diventa vuoto. E comincia a venirmi il dubbio che forse sia proprio questo il punto: fare per un po' il girotondo con il nulla, sempre più veloce, così che la forza centrifuga butti fuori tutto quello che c'è di superfluo e il discorso acquisisca la potenza di un tornado, invece che partire da A verso Z, passando da tutte le B, C e D già trite e ritrite.
La parola imposta ha il potere di distruggere le immagini, di fagocitare il reale e di portare tutto su un piano di modelli e astrazioni. Non voglio costruire definizioni, ma inseguire la poesia, stando attaccata a quello che c'è di fronte a me e alla macchina fotografica.
«La poesia dell’invisibile, la poesia delle infinite potenzialità imprevedibili, così come la poesia del nulla nascono da un poeta che non ha dubbi sulla fisicità del mondo». Italo Calvino, Lezioni Americane. Sei proposte per il prossimo millennio. Mondadori, 2016.
In Making Pictures non ho mai parlato di psicoanalisi. È una mancanza del tutto intenzionale e giustificata, anche se molta fotografia è stata influenzata da questa disciplina. Ci sono storici della psicologia che descrivono, senza mezzi termini, il '900 come il "secolo della psicoanalisi". Un po' per Freud, un po' perché, in effetti, ha influenzato molti settori della scienza e dell'arte, anticipando, attraverso concetti e metafore, scoperte che sarebbero arrivate solo molto più tardi con le neuroscienze.
Potremmo passare tutto un anno solo a parlare di psicoanalisi e arte visiva nella Vienna a cavallo tra XIX e XX secolo, ma non lo farò. Primo perché la psicoanalisi è un argomento enorme e complesso, non me la sento troppo di parlarne, giusto comincio a capirci qualcosa dopo due anni. In secondo luogo perché nasconde delle insidie enormi per chi ci arriva dall'esterno, come noi, magari per integrarla con un progetto fotografico.
La farò molto semplice, per cercare di portare a galla quelli che, secondo me, sono i problemi. Poi fate quello che volete. Quello che sto cercando di dirvi, se decidete di percorrere questa strada, è che il paesaggio è ricco e affascinante, ma il sentiero è pieno di sassi che sporgono che rischiano di mandarvi per terra. Parlo per esperienza.
Due sono le cose che la psicanalisi ha ficcato per bene nel senso comune. Primo: che sotto ogni cosa esiste un significato nascosto e profondo, ma fondamentale, che è necessario scoprire. Secondo: che le parole sono la chiave. Tante parole, tante spiegazioni, tanto meglio.
Alura. Il discorso è questo: quanto è vero che ci sia sempre un significato nascosto e quanto, invece, è un bisogno di riempire il vuoto?
«Lo haiku ha una proprietà un poco fantasmagorica: che ci s'immagina sempre di poterne comporre da sé con facilità [...]. Lo haiku fa invidia: quanti lettori occidentali non hanno mai sognato di passeggiare per la vita, taccuino alla mano, annotando qui e là delle "impressioni", la cui brevità garantirebbe la perfezione, la cui semplicità attesterebbe la profondità (in virtú d'una doppia mitologia, l'una classica, che fa della concisione una prova d'arte, l'altra, romantica, che attribuisce un valore di verità all'improvvisazione)?
Pur essendo del tutto intelliggibile, lo haiku non vuole dire nulla ed è per questa doppia condizione ch'esso sembra offerto alle interpretazioni in un modo particolarmente disponibile, servizievole, come un ospite cortese, che vi permette d'installarvi comodamente in casa sua, con le vostre manie, i vostri valori, i vostri simboli [...].
Cosí anche lo haiku sembra offrire all'Occidente dei diritti che la sua letteratura gli rifiuta e delle comodità ch'essa gli lesina. Avete il diritto, suggerisce lo haiku, d'essere futile, breve, ordinario; racchiudete ciò che vedete, ciò che sentite, in un minimo orizzonte di parole e saprete interessare; avete il diritto di fondare voi stessi (e a partire da voi stessi) ciò che vi sembra ragguardevole; la vostra frase, qualunque essa sia, enuncerà una morale, produrrà un simbolo, voi sarete profondo; con minimo dispendio, la vostra scrittura sarà piena.
L'Occidente inumidisce di senso ogni cosa, alla maniera di una religione autoritaria che imponga il battesimo all'intera popolazione [...].
[...] non si tratta d'arrestare il linguaggio su un silenzio carico, pieno, profondo, mistico, oppure su un vuoto dell'anima che si disporrebbe alla comunicazione divina (lo zen è senza Dio); ciò che viene enunciato non deve svilupparsi né nel discorso né nell'assenza del discorso; ciò che è enunciato è opaco e tutto ciò che si può fare è ripeterlo; è ciò che si raccomanda all'apprendista che elabora un koan (cioè un aneddoto che gli viene proposto dal maestro): non di risolverlo, come se avesse un senso, e nemmeno di afferrare la sua assurdità (che sarebbe ancora un senso), ma di rimasticarlo, "sino a che casca il dente". Tutto il pensiero zen, di cui lo haiku non è che l'aspetto letterario, appare cosí come una immensa pratica votata a sospendere il linguaggio, a rompere questa sorta di radiofonia interiore che risuona continuamente in noi, sin dentro il nostro sonno [...], una pratica votata insomma a svuotare, a sconcertare, a prosciugare il chiacchericcio irrefrenabile dell'anima [...].
[...] lo haiku non è un pensiero ricco ridotto ad una forma breve, ma un evento breve che trova tutt'a un tratto la sua forma esatta». Roland Barthes, L'impero dei segni. Piccola Biblioteca Einaudi, 2007.
Qualche anno fa, purtoppo non trovo più il riferimento, avevo ascoltato un'intervista a Rinko Kawauchi. Ad un certo punto la persona che conduce la conversazione parte con una domanda, che poi diventerà una specie di interpretazione, su come le sue fotografie nascondano sempre un senso di malinconia e di perdita, come se fossero, in un modo o nell'altro, legate alla depressione, il perché e il percome. In tutto questo ricordo che l'autrice se ne stava in silenzio e, alla fine, glissò la domanda. Magari è proprio il suo modo di fare, chi lo sa. Ma magari è anche perché, in fondo, non c'è sempre bisogno di cercare tutto questo significato nascosto.
«Part of why I make photographs is to confirm my existence, that liminal space is what feels closest to how I experience reality». Rinko Kawauchi in Rinko Kawauchi: As it is.
Il problema del primato della parola, invece, è che chi parla rischia di seppellire con le proprie spiegazioni chi o cosa è parlato. Diventa (anche) una questione di potere. La persona che sta di fronte alla nostra macchina fotografica può avere lo spazio di esprimersi se, tra di noi, c'è un vuoto che è ascolto, relazione, sguardo vero. Oppure può diventare un personaggio, una caricatura, o perfino un oggetto che noi mostriamo come "quella cosa là".
«L'altro che non ha la possibilità di un tu è infatti messo decisamente fuori scena, allontanato,anche se gli(le) si tributano tutti gli onori come a un idolo. E di fronte all'idolo due sono le alternative: essere venerato o essere violato e abbattuto, mentre ogni reale interlocuzione risulta impossibile». Rosella Prezzo, Trame di Nascita. Tramiti, filosofie, immagini e racconti. Moretti e Vitali, 2023.
E con tutto questo girare intorno al vuoto forse non faccio altro che ingrandirlo sempre di più. Ma, per quest'anno, penso che sia ok. Che tutto quello che mi permette di vedere, ascoltare, desiderare, immaginare e scattare fotografie non mi fa paura, anche se non riesco a vederne il fondo.