#5.3 Fuori posto
Partiamo subito con il presentare la questione del mese: in che modo lavorare con l'immagine fotografica può contribuire alla comprensione di una dimensione così complessa come quella psicologica[1]? Che beneficio concreto questo mezzo/linguaggio può offrire a chi decide di utilizzarlo e a chi viene coinvolto?
Alcuni ricercatori individuano tre tendenze nella fotografia contemporanea[2]: immagini che indagano ciò che resta dell’istituzione psichiatrica, scatti che documentano gli spazi abbandonati dei manicomi e fotografie che mettono in primo piano le esperienze individuali e l’integrazione (o i tentativi per raggiungerla). Questo per dare una prima classificazione di massima, di certo non esaustiva, forse un po' troppo focalizzata sulla documentaristica.
Negli ultimi anni, infatti, l'interesse per l’utilizzo della fotografia in ambito sociale e terapeutico si è fatto sempre più vivo, stimolato dalla diffusione capillare dell’immagine fotografica e dalla sua accessibilità, sia in termini di produzione che di condivisione.
Un esempio è il Photovoice, una metodologia di ricerca-azione sviluppata da Wang e Barris nel 1997[3] e utilizzata come tecnica di intervento in psicologia di comunità. Di base si tratta di fotografia documentaristica con lo scopo di promuovere il cambiamento sociale attraverso la partecipazione e la cooperazione di tutti i soggetti appartenenti a una comunità, in un «incontro tra sapere tecnico e sapere locale [che] garantisce il passaggio dal lavorare per la comunità al lavorare con la comunità»[4]. Nel Photovoice, il fotografo non è un autore che si approccia al mondo filtrandolo attraverso una specifica grammatica visiva e sensibilità, quanto piuttosto il facilitatore di un processo collettivo, in cui il gruppo stesso esplora, documenta e riflette sulla propria realtà.
«In quanto ambito di osservazione, riflessione e dialogo, le fotografie offrono, quindi, una potenziale sponda e un via per narrarsi e per narrare, per analizzare e per proporre che divengono particolarmente rilevanti per gruppi di persone che faticano ad essere riconosciute e ascoltate, a far udire la propria voce.
In chiave di processi collettivi, il photovoice offre, dunque, sia un percorso che trova nell’immagine un enzima funzionale a sviluppare dialogo, sia un’occasione di attivazione e condivisione di atteggiamenti di mutuo sostegno e di iniziativa [...].
Wang e Burris (1997), che l’hanno messo a punto, sottolineano tre ragioni
principali per ricorrere al photovoice: per dar modo alle persone di documentare e mettere in evidenza le risorse e le criticità del contesto in cui vivono; per promuovere dialogo critico attraverso l’osservazione e la discussione di fotografie in gruppi di diverse dimensioni, e per condividere conoscenze riguardo alle tematiche che caratterizzano le comunità; per comunicare con i decisori politici e con chi sia in grado di realizzare cambiamenti». Massimo Santinello, Alessio Surian e Marta Gaboardi. Guida pratica al photovoice. Promuovere consapevolezza e partecipazione sociale.
Vi sono, poi, iniziative che promuovo l’esplorazione di sé stessi e del proprio vissuto attraverso la fotografia, creando nuove immagini, spesso attraverso l’autoritratto, o utilizzando un archivio già esistente, rivisitando gli album di famiglia, tanto per fare un esempio.
Alcune di queste pratiche, infine, sono sviluppate e integrate in veri e propri percorsi terapeutici.
Photographic Treatment è uno strumento terapeutico per immagini utilizzato per testare lo stato di salute dei pazienti affetti da demenza senile realizzato dall’artista francese Laurence Aëgerter in collaborazione con medici geriatri, neurologi e psicologi. «Tutte le immagini sono accompagnate da fragranze lenitive o vitalizzanti come eucalipto, sapone, cumino, arancia, caprifoglio, menta piperita, rosa dei giardini, chiodi di garofano o lavanda».
Possiamo creare immagini non solo con la macchina fotografica, ma anche con una varietà di dispositivi, più o meno portatili, che rendono la fotografia accessibile a chiunque, senza distinzione di età, classe sociale o preparazione tecnica. La facilità con cui le immagini vengono pubblicate e condivise dà vita a un intreccio di rappresentazioni e narrazioni personali in cui ogni individuo diventa un attore attivo. A differenza dei media tradizionali, come televisione, radio e stampa, la persona non è più solo spettatore passivo di rappresentazioni preconfezionate e, spesso, stereotipate.
«Representations of the body, it is argued by many, are a means to establish and filter dynamic cultural meanings, construct social interaction, and determine how power is utilized among disparate social groups [...]. In this paradigm, no one questions how or why the deviants kill or cannibalize; the fact that they are represented with embodied deviance is enough to preclude any further explanation. Of concern, however, is how the boundaries of acceptable normalcy have narrowed in this contemporary narcissistic and isolationist context. In several popular culture mediums, several “other” groups are co-conspirators with the disabled deviants. The obese, elderly, physically disabled (i.e., distinguished from the congenitally disabled), and foreign have joined the ranks of deviants that are depicted as railing against the attractive, normal urban folks who are generally depicted as just looking to have a good time [...].
The audience’s entertainment rests in the pleasure of the normalizing experience of identifying with the “normal” characters that are threatened by the deviants». Lawrence C. Rubin, Mental Illness in Popular Media: Essays on the Representation of Disorders.
Questo, però, non elimina il rischio di generare nuove rappresentazioni stereotipate altrettanto (se non più) dannose. Gli stereotipi sono qualcosa di estremamente complesso, come abbiamo già discusso in precedenza[5].
«Quando una città viene costruita intorno ai veicoli, toglie valore ai piedi umani...», scriveva Ivan Illich nel 1976. Quando una società si appoggia così tanto sulle immagini, le conseguenze non possono essere di sicuro solo positive. Chi ci assicura che le nuove rappresentazioni, una volta soppiantate quelle vecchie ritenute inadeguate, non si trasformino in nuovi idoli, fotografie che modificano l’ordine della realtà senza però metterlo in discussione? Che inibiscono l’esperienza in prima persona, al pari di moderni atlanti psichiatrici le cui figure trasformano l’altro da soggetto a oggetto di studio, curiosità e intrattenimento? Che alimentino, in sostanza, pratiche discriminatorie?
Ecco, tenendo conto di tutto ciò, essere una fotografa che fa ricerca in questo campo non è una passeggiata. È stimolante, certo, ma a volte anche sfiancante, perché significa convivere con la fastidiosa sensazione di essere sempre un po’ fuori posto.
Certo, ci si può nascondere dietro il dito del "eh, ma io faccio tutto questo per fare del bene". Ma se appena una fa un briciolo di riflessione capisce che l'aiutare è un'attività estremamente complessa, non priva di ambivalenze[6]. D'altronde, si dice che la strada dell'inferno sia lastricata di buone intenzioni, no?
Senza contare, poi, che bisogna allenarsi a sopportare quello che David Foster Wallace descriveva come «lo stress e l’imbarazzo e la potenziale rottura di palle dell’interagire con le persone reali», portato all'ennesima potenza[7]. E che l'obbiettivo non è lavorare a un progetto, portare a casa qualcosa, ma stare in quella situazione. Soffermarsi in momenti che non ci riguardano, senza l'aspettativa di ricevere una qualche gratificazione in cambio.
Le fotografie sono forme, oggetti in cui l'inafferrabile realtà viene ordinata, «punti privilegiati da cui sembra scorgere un disegno, una prospettiva».
«L’universo si disfa in una nube di calore, precipita senza scampo in un vortice d’entropia, ma all’interno di questo processo irreversibile possono darsi zone d’ordine, porzioni d’esistente che tendono verso una forma, punti privilegiati da cui sembra scorgere un disegno, una prospettiva. L’opera letteraria è una di queste minime porzioni in cui l’esistente si cristallizza in una forma, acquista un senso, non fisso, non definitivo, non irrigidito in una immobilità minerale, ma vivente come un’organismo». Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il nuovo millennio.
Calvino qui si riferisce all'opera letteraria, ma penso che il discorso regga anche in riferimento all'immagine fotografica.
Il riduzionismo che sta alla base dell'attuale approccio scientifico ha portato in diversi casi a trascurare l’osservazione globale della realtà e dei fenomeni, affrontando i problemi da un unico e sempre più specializzato punto di vista[8].
«Antonio: It would be interesting to understand your consideration of transdisciplinarity.
Ervin: Disciplines in science are artifacts; they are artificial. They are often necessary, but not always a satisfactory limitation on the number of observations and the number of facts that one takes into account. There are no boundaries in nature that correspond one to one with the boundaries of disciplines. For example life is not necessarily limited to biology, it’s also obviously evident in sociology and psychology. It also appears in the cosmos». Ervin László e Antonio Marturano, A Theory of Everything. Fresh Perspective, gennaio 2013.
Là dove un approccio multidisciplinare crea una giustapposizione di conoscenze, e l'interdisciplinare un'integrazione, la transdisciplinarità punta a superare i confini «che separano paradigmi, rigidi norme istituzionali, etichette disciplinari»[9].
Ed ecco allora che forse, in questo spazio transdisciplinare, la fotografia può sentirsi un po' meno "fuori posto", così come può liberarsi di quel bisogno eccessivo di "farsi importante", che la porta a trasformarsi in qualcosa che non è (con esiti, talvolta, anche poco piacevoli).
Con la fotografia possiamo riflettere non solo sulle rappresentazioni, ma sulla rappresentabilità stessa di una dimensione, quella "psicologica" (vale anche qui lo stesso discorso della prima nota), che spazia da esperienze individuali (anche di malessere, purtroppo) a forze sistemiche, economiche e sociali.
In soldoni, possiamo immaginare la fotografia come uno strumento capace di oltrepassare i confini della documentazione di un disagio mentale, o di un'istituzione (presente o passata). Possiamo anche guardare oltre l'individuo, puntare per una volta l'obiettivo su qualcosa che non è una persona[10]. Possiamo giocare con le facoltà narrative e simboliche, fondamentali nell'esperienza umana, seguendo le briciole che le onnipresenti immagini lasciano in ogni disciplina.
Negli ultimi mesi quelle tracce io ho provato a seguirle, e sono finita in mezzo agli alberi. Ma questa è una storia per il prossimo mese.
A presto, e in bocca al lupo per il delirio natalizio!

Trovo che "dimensione psicologica" non sia il termine più appropriato per indicare quello di cui sto parlando, ma è forse quello più comprensibile in un contesto informale come quello di questa newsletter. Nel senso comune "psicologia" è un termine che comprende capacità cognitive, emotive, interpretazione dei comportamenti, esperienze cliniche e terapeutiche...insomma, tutto il calderone di vissuti legati alla "mente" di un singolo individuo, se vogliamo semplificare. Ecco, questo è un modo un po' riduttivo per definire la questione, che trova origine principalmente nel dualismo cartesiano tra corpo e anima, che ha impedito per decenni di studiare la dimensione interiore dell'individuo in relazione a quella fisica e sociale (ma non solo), di offrire una visione più sistemica e complessa dell'esperienza umana. ↩︎
Boeri, G. (2022, 15 ottobre). “The Best Liar Among Us”. On Photography and Psychiatry. Translating Ilness. https://translatingillness.com/. ↩︎
Satinello, M., Vieno, A. (2013). Metodi di intervento in psicologia di comunità. il Mulino. ↩︎
La serie di articoli dedicata agli stereotipi inizia qui. Con il nuovo anno devo metteri a indicizzare seriamente tutto il materiale che c'è qui dentro. Più che una raccolta di newsletter questo posto sta diventando una biblioteca. ↩︎
Per approfondire: Giovanna Leone (a cura di). Le ambivalenze dell'aiuto. Teorie e pratiche del dare e del ricevere. ↩︎
Queste sensazioni negative in realtà possono essere considerate una forma di protezione da stress non necessari e rischi di traumi vicari. Non è solo una questione di competenze e volontà. ↩︎
Fabio Marzocca, Il nuovo approccio scientifico verso la transdisciplinarità. ↩︎
Rossella Failla, Multidisciplinare, Interdisciplinare, Transdisciplinare: facciamo chiarezza. ↩︎
Osservazione personale: le persone vulnerabili sono spesso le più fotografate, diventando, loro malgrado, il "volto" di uno stato che per primi subiscono e di cui, spesso, non sono causa. ↩︎
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