#P.6 Continuum
La motivazione non proviene dalle stelle.
C’è una parola giapponese molto bella quanto conosciuta (o logorata): ikigai. Le espressioni italiane equivalenti potrebbero essere “scopo della vita” o “la ragione per alzarsi la mattina”. Scrivo potrebbero perché i termini giapponesi, questo compreso, vivono sempre con una certa ambiguità. Il significato deriva anche dal contesto, non c’è un senso preciso come per (la maggior parte) delle parole italiane, per esempio. Scrivo logorata perché credo sia stata inglobata in quella fetta di cultura orientata al branding-marketing (e alla vendita di corsi), molto specifica nel nostro periodo storico, utile solo a mettere nelle tasche di qualcuno più soldi del necessario a scapito di qualcun altro.
Vi avviso: sto leggendo Realismo Capitalista di Mark Fisher, mi sta smuovendo l’animo parecchio.
«Negli anni Sessanta e Settanta il capitalismo ha dovuto affrontare il problema di come contenere e assorbire le energie che provenivano dal suo esterno. Adesso ha il problema opposto: avendo incorporato con fin troppo successo quanto gli era esterno, come potrebbe mai continuare a funzionare senza un “fuori” da colonizzare e di cui appropiarsi?» Mark Fisher, Realismo Capitalista. NERO, edizione 2018.
Non so nulla di filosofia orientale, per cui scrivo questo e mi fermo. Devo affondare il dente avvelenato da qualche parte, altrimenti non riesco a prendere sonno.
Il concetto di ikigai è entrato nel vocabolario coaching-business come sinonimo di uno strumento per raggiungere il successo, la felicità e la soddisfazione personale facendo passare il messaggio che la “spinta interiore” sia l’unico motivo, o almeno il principale, per il lavoro. È giusto essere soddisfatti di quello che si fa, certo, ma questo non può sostituire il giusto compenso. Viviamo in un sistema in cui, in genere, servono soldi per vivere. Lavorare è il modo più diffuso per ottenere soldi in cambio. In questo caso, dietro alle belle parole giapponesi, si nasconde lo spettro del “ti fa fare esperienza”.
Dall’altra parte, trovo anche questo:
«If you want to implement ikigai in your life, you have to drop your beliefs about material success and the obsessive spirit of competition». B. Remus, The Art of Ikigai: How You Can Make Today the Best Day.
A volte penso che riempiamo l’ambiguità del termine ikigai con quello che sappiamo e riconosciamo come “scopo valido”: successo, prestazione, competizione. Non sono il male, in assoluto. Ma vanno diluiti, l’assunzione pura è rischiosa.
In un tempo in cui le belle parole straniere non erano ancora arrivate dalle nostre parti, ma forse anche un po’ oggi, pensavamo fossero le stelle a guidarci o spingerci in una direzione. Come nella navigazione. Come se fossimo dei carrelli su binari già stabiliti e le nostre azioni e comportamenti possano essere spiegati solo come conseguenza di una forza esterna.
Tra le tante cose che gli psicologi ricercano c’è anche la spiegazione alla spinta all’azione dell’essere umano: la motivazione.
I lavori sono sempre in corso. La psicologia è una disciplina giovane in confronto a molte altre, ha raccolto contributi dai campi più disparati. Una scienza che ha contribuito tantissimo alla psicologia, soprattutto a fine ‘800, è la biologia. Ad un certo punto il comportamento, prima animale e poi umano, comincia ad essere spiegato in termini di istinti. Non tutti sono d’accordo sulla definizione di istinto (nella storia della prima psicologia sono più le volte che la gente litiga che quelle in cui va d’accordo, probabilmente), ma in generale possiamo definirle come tendenze innate, geneticamente codificate, al benessere e alla sopravvivenza.
Questo spiega alcuni comportamenti ma non altri. A volte facciamo cose che vanno oltre al benessere “biologico”, perciò cominciano a nascere altri termini come pulsioni, bisogni e motivi.
I motivi sono degli interessi ricorrenti che orientano i processi cognitivi (come l’attenzione e la percezione), riflettono i bisogni interni e sono influenzati anche da altri fattori, come l’esperienza e la società. La motivazione, che molto spesso perdiamo e andiamo sempre cercando, è l’insieme dei fattori di avviamento che guidano e orientano il comportamento, e ne stabiliscono il mantenimento nel tempo.
Per alcuni esiste anche una distinzione tra motivazione (la scelta di un obiettivo) e volizione (il suo perseguimento e il mantenimento dell’azione nel tempo). Per cui io posso sentire la spinta e decidere di fare qualcosa, ma alla fine non portare avanti nulla.
Secondo la teoria dell’auto-determinazione di Deci-Ryan tutti gli essere umani hanno gli stessi tre gruppi di bisogni psicologici di base:
- autonomia, ovvero sentirsi liber* nelle proprie scelte e comportamenti.
- Competenza, sentirsi capaci ed efficaci in una o più attività.
- Appartenenza, il sentirsi conness* con altri esseri umani.
L’ambiente sociale dove ognuno di noi nasce e si sviluppa (famiglia, luogo di lavoro, cultura e società) può favorire ma anche ostacolare gli sforzi che ogni persona compie per soddisfare questi bisogni.
«When these needs are optimally supported, evidence suggests that people are more autonomous in their behaviors, are more likely to persist at their behaviors, and feel better overall». University of Rochester, Medical Center. Self-Determination Theory.
In questa prospettiva l’autodeterminazione è un continuum che va dallo stato di completa assenza di motivazione a quella più forte, interna. In questo ultimo stato si fa qualcosa per il puro piacere di farlo, senza aspettative o ricompense.
«At the far left of the self-determination continuum is amotivation, the state of lacking the intention to act. When amotivated, people either do not act at all or act without intent--they just go through the motions. Amotivation results from not valuing an activity (Ryan, 1995), not feeling competent to do it (Bandura, 1986), or not expecting it to yield a desired outcome (Seligman, 1975)». Richard M. Ryan and Edward L. Deci, Self-Determination Theory and the Facilitation of Intrinsic Motivation, Social Development, and Well-Being. American Psychologist, January 2000.
Nella parte centrale del continuum si passa da una motivazione che è regolata totalmente dall’esterno tramite premi e punizioni, per fare un esempio, ad una progressiva interiorizzazione passando da un “lo faccio per una ricompensa” al “lo faccio per me”.
Non tutto quello con cui entriamo in contatto segue questo continuum allo stesso modo. Ci sono cose di cui non mi interesserà mai nulla (forse), cose che saranno sempre motivate da compenso e così via. La cosa interessante di questo modello è che la motivazione non è un qualcosa di fisso e totalmente interno, ma varia nel tempo, crescendo o decrescendo.
Ho iniziato a fare ritratti di famiglia e maternità semplicemente perché è una cosa che sono in grado di fare e per il pagamento, nient’altro. Con il passare del tempo però, accumulando esperienze, ho cominciato a notare qualcosa che interessava a me, a trovare la motivazione oltre alla ricompensa economica.
Ma così come può crescere può anche sparire. Le ricompense eccessive e ingiustificate (o percepite come tali) possono indebolire la motivazione intrinseca fino a farla scomparire del tutto. Di fronte ad una ricompensa esterna il comportamento passa da essere spinto del tutto da una motivazione interna a dipendere da ricompense esterne. Nel momento in cui questi premi vengono a mancare, sentiamo “sparire” anche la spinta ad agire. Non svanisce del tutto, magari, ma si indebolisce.
Molt* di noi vedono la fotografia come una pratica per esprimersi, per ascoltare, per sentirsi liber*. Come l’attività migliore della giornata, l’unica cosa che si vorrebbe fare sempre. Ma, a volte, succede che anche quando ci si può dedicare al 100% alla fotografia, e cominciano ad arrivare ricompense economiche e sociali (in termini di riconoscimento), inizi a mancare la spinta. È un’esperienza personale e diversa per tutti, dipende da tanti fattori e non è detto che succeda sempre ma…vi è mai capitato di sentire che quello che prima vi dava soddisfazione all’improvviso non ha più la stessa carica?
Ci sono un sacco di motivi per cui le persone decidono di darsi alla fotografia e, magari, di farla diventare anche una professione. Ci sono motivi che non ci sono nemmeno così chiari, però credo che capire quale sia la spinta (o le spinte), possa aiutare a superare i momenti di cambiamento e di crisi. Risolvendoli, ritornando alla carica iniziale, o aiutando a cambiare rotta.