#3.1 Buoni propositi
Fletto i muscoli e sono nel vuoto.
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Come funziona con i buoni propositi? Cioè: valgono ancora se li definisco adesso, o si buttano fuori i primi giorni di gennaio e finita lì? Tipo auto-lettura del gas, che se ti perdi la finestra hai chiuso, ti tocca aspettare fino al prossimo giro.
Sono una di quelle persone che non vive molto bene il periodo di Natale. Quest’anno, poi, è stato particolarmente pesante. Forse è questo il motivo. Di fronte ai primi post di buone intenzioni per il 2023 la mia testa è andata in fissa con l’urlo di battaglia di Rat-Man: fletto i muscoli e sono nel vuoto.
Faccio una piccola digressione per chi non lo conoscesse: Rat-Man è un anti-eroe dei fumetti creato da Leo Ortolani1. È un personaggio comico (a volte anche con un umorismo un po’ da osteria), ma anche tragico e davvero molto umano. Non ha superpoteri, ma di professione fa il supereroe, totalmente privo di intelligenza, forza fisica e buon senso2. È rozzo e sgarbato, ma è anche capace di azioni profondamente sensibili e oneste. È umano, appunto. Finita la parentesi.
Arriva il 2023 e io fletto i miei (indolenziti) muscoli e sono nel vuoto. E mi sento precipitare, tirata giù non dalla forza di gravità, ma dal peso di tutti i buoni propositi irrealizzabili, di quello che forse dovrei fare, ma che non riesco a raggiungere, in fotografia, con la fotografia e attraverso la fotografia. Tutto il contrario della leggerezza proposta da Calvino, che nella sua lezione americana ci infila dentro anche il cavaliere del secchio di Kafka. Con la differenza che lui, pur morendo di freddo in groppa a un secchio, a volare, ci riesce.
«Ma l’idea di questo secchio vuoto che ti solleva al di sopra del livello dove si trova l’aiuto e anche l’egoismo degli altri, il secchio vuoto segno di privazione e desiderio e ricerca, che ti eleva al punto che la tua umile preghiera non potrà più essere esaudita, - apre la via a riflessioni senza fine […]. Tanto più che se fosse pieno non permetterebbe di volare». Italo Calvino, Lezioni Americane. Sei proposte per il prossimo millennio. Mondadori, 2016.
Con Kafka nei paraggi avrei anche potuto fare la fine di uno scarafaggio. Dopo tutto, non mi va così male, su.
Non mi lamento. O magari anche si. Perché no? Proviamoci.
Quest’anno Making Pictures lo dedichiamo alle magagne fotografiche. A tutte quelle pratiche sedimentate, quelle croste di substrato culturale che acquisiamo quando cominciamo a fotografare e che ci portiamo dentro senza accorgercene. Che non ci fanno bene, ma che non vediamo perché ci siamo immersi3. Questo argomento ha molte componenti soggettive, è vero, ma ci sono alcuni punti che toccano un po’ tuttз, lo sento nei discorsi e nei dubbi condivisi.
Ma il mio non sarà un lagnarmi tanto per dire, per buttare fuori, per sentirmi meglio. Questo tipo di discorsi non è fatto per stare qui dentro, per impegnare la vostra attenzione. Magari proverò un po’ di soddisfazione a togliermi qualche sassolino nella scarpa (o a scrostare qualche fessura…mannaggia, eccolo qui lo scarafaggio che spunta), ma l’obiettivo non è quello.
Lo scopo di esporre le magagne è quello di fare un bel repulisti, come quando si svuotano i pensili della cucina e salta fuori l’ultimo mattoncino di lievito di birra comprato nel 2020. Mezzo aperto e inutilizzabile. Si decide cosa tenere e cosa lasciare, perché non serve più o magari, addirittura, perché potrebbe fare male. È un’operazione di alleggerimento.
«Dopo quarant’anni che scrivo fiction, dopo aver esplorato varie strade e compiuto esperimenti diversi, è venuta l’ora che io cerchi una definizione complessiva per il mio lavoro; proporrei questa: la mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso; ho cercato di togliere peso ora alle figure umane, ora ai corpi celesti, ora alle città; soprattutto ho cercato di togliere peso alla struttura del racconto e al linguaggio». Italo Calvino, Lezioni Americane. Sei proposte per il prossimo millennio. Mondadori, 2016.
Fin da quando ho iniziato a fotografare ho imparato molto bene ad aggiungere, meno a togliere. C’è chi sostiene che la nostra mente sia più brava nelle addizioni e nelle verifiche che a sottrarre e falsificare.
Per un motivo o per l’altro sono sempre stata coinvolta con le immagini, fin da bambina, ma ho iniziato a fotografare, nel senso stretto della parola, solo verso i trent’anni. È tardi? È presto? Mah.
«La differenza tra passato e futuro si riferisce alla nostra visione sfocata del mondo». Carlo Rovelli, L’ordine del tempo. Adelphi, 2017.
Mi sono sempre sentita “in ritardo”, perciò ho cercato di accumulare il più possibile, tutto quello che potevo, ogni volta che potevo: corsi, libri, workshop, seminari e occasioni per fotografare. E questo anche sul piano tecnico: so come e dove aggiungere luci per ottenere un certo risultato, ma sto imparando solo ora a ragionare bene “in negativo”, togliendo luce dove non serve. E davvero: a volte un cartoncino nero è più utile di un flash.
La fotografia, oltre ad essere una pratica, un mezzo espressivo, arte e tutto quello che volete, è anche un mercato. E come tale deve venderci qualcosa. Per cui anche qui, impariamo fin da subito4 che il ruolo del fotografo è legato all’avere un qualcosa in più (un certo tipo di attrezzatura, una formazione, dei riconoscimenti, il talento).
Togliere è sempre più difficile che aggiungere. E togliere qualcosa che è diventato parte di noi stessi è terribilmente complicato. Ma andiamo per gradi.
Leggerezza non vuol dire rinunciare a tutto e per sempre. Molto spesso si tratta di capire che un certo tipo di cosa, o di esperienza, in quel momento, non mi serve. Anzi potrebbe addirittura ostacolarmi. È soggettivo e dipende anche dalla situazione. Con la pratica e l’esperienza arriviamo a capire dove ci serve l’essenziale.
«Titles are important. When I review student work, one of the first questions I ask is “what is the title?” More often than not I’m met with no answer. This is remarkable. I’d have a hard time getting started on anything without having some sort of working title». Alec Soth, The Ballad of Good and Bad Titles. Archived Blog, 16 aprile 2007.
Torniamo ai buoni propositi. Ci dicono che per crescere e migliorare bisogna avere degli obiettivi. Ignoriamo per un attimo tutta la parte distorta sull’auto-miglioramento e la pressione insensata sull’arrivare (dove poi?). La crescita non è solo “in su” e “in avanti”. Ma di questo ne riparleremo più in là.
Allora: è vero. Ci sono un sacco di teorie e ricerche empiriche che dimostrano l’importanza degli obiettivi per sostenere la motivazione (negli individui e nei gruppi di lavoro5). Però bisogna anche considerare come, quando e verso chi sono rivolti quegli obiettivi. La definizione degli scopi è cruciale, non basta dire che si vuol far qualcosa per avviare tutto il processo che serve per arrivare allo scopo. Quelli sono desideri, non obiettivi.
In soldoni gli obiettivi devono essere chiari e raggiungibili, in riferimento alle risorse che abbiamo davvero in un certo momento. Tempo, soldi, energie fisiche e mentali. Suona come una banalità, ma attenzione! Proprio quando qualcosa ci sembra semplice tendiamo a sottovalutarla. I buoni propositi di inizio anno, così come quelli che si fanno in vacanza, sono pericolosissimi perché definiamo degli impegni per i noi futuri basandoci sulle risorse che abbiamo in quel momento: tempo (perché magari siamo in vacanza), forza fisica e mentale (perché magari abbiamo fatto qualche giorno di riposo).
In base al tipo di obiettivo e alle nostre caratteristiche personali, poi, possiamo arrivare anche a formarci delle aspettative un po’ troppo alte su cosa potremmo fare e dove riusciremmo ad arrivare. Anche senza puntare a mete irraggiungibili, ma semplicemente dando per scontato che saremmo sempre capaci di dare il massimo, esserci sempre al 100%.
Instagram: @masood_boomgard
Non riuscire a soddisfare le aspettative può causare frustrazione e minare il senso di autoefficacia. Che è una cosa simile all’autostima, ma relativa a quanto crediamo di essere in grado di fare un qualcosa o affrontare una situazione. Ora, autostima e autoefficacia in genere non sono così fragili, qualche colpetto lo prendiamo ogni giorno e non succede niente. Il problema è quando i colpetti cominciano a diventare tanti, e magari su più fronti, così da farci dubitare di essere davvero capaci di fotografare. O che tutto il nostro percorso abbia un qualche senso o valore. E così rischiamo di arretrare piano piano, magari fotografando sempre di meno o evitando di sperimentare.
Siamo un po’ come delle chiocciole che si ritirano nel guscio quando sentono una minaccia. Che è un po’ una pressione sociale, tutto quel caricarci di ambizioni, sfide e tappe di vita da raggiungere. Un carico che andrebbe alleggerito ma, visto che il mondo esterno in questo non ci aiuta, l’unica è fermarsi un attimo per decidere quali pesi buttare fuori bordo invece di aggiungerne. Occhio alle responsabilità che scarichiamo sul nostro io futuro. In qualche modo magari ci si riesce anche ad arrivarci alla meta, ma con il rischio di lasciare qualche pezzo per strada. E forse anche la cosa più importante.
«Se qualcuno fosse in grado di guardarci dall’alto, vedrebbe che il mondo è pieno di persone che corrono in fretta e furia, sudate e stanche morte, nonché delle loro anime in ritardo, smarrite, che non riescono a star dietro ai loro proprietari. Da tutto ciò deriva una gran confusione, le anime perdono la testa, e la gente smette di avere cuore. Le anime sanno di avere smarrito il loro proprietario, ma spesso la gente non si rende affatto conto di avere smarrito la propria anima […].
Succede perché la velocità con cui si muovono le anime è molto inferiore a quella dei corpi. Infatti, esse si sono formate in tempi assai remoti, subito dopo il Big Bang, quando il cosmo non aveva ancora acquistato troppa velocità, ragion per cui poteva guardarsi sempre allo specchio. Lei deve trovarsi un posto tutto suo, sedersi tranquillo e aspettare la sua anima. È senz’altro dove lei si trovava due, tre anni fa. Dunque, l’attesa potrebbe durare un po’». Olga Tokarczuk e Joanna Concejo (traduzione di Raffaella Belletti), L’anima smarrita. TopiPittori, 2018.
Se avete voglia di vedere qualcos’altro di Leo Ortolani. ↩
Un po’ è apprendimento e un po’ è condizionamento, ma non scendiamo nei dettagli. ↩