#4.2 Controtempo
Tempo, muscoli e fotografia.
Buone notizie: ho appena finito di preparare le copie stampate di Making Pictures 2023! Una bella pila di pacchetti sta aspettando il corriere nell'ingresso, lunedì manderò le singole email con i rispettivi codici di tracking a chi aveva rinnovato l'abbonamento per il secondo anno o l'aveva attivato dopo il 31/03/2023.
Ho ancora qualche copia in attesa di una casa, se volete adottarla potete farlo contattandomi entro il 31/03/2024 su info@florianariccio.com. Vi manderò tutti i dettagli in privato, comunque il contributo è di 40€ (spedizione inclusa) da versare via PayPal (o altro metodo che decideremo insieme).
Ho accumulato un mese di ritardo per questo primi invio (era previsto per il 31/01), per cui grazie per la pazienza, oltre che per il vostro sostegno.
La migrazione di Making Pictures da Substack a Ghost mi ha impegnata più del previsto. Mi piacerebbe dare la colpa a questo contrattempo, ma la verità è che da qualche settimana a questa parte sto cambiando ritmi e abitudini, e mi sembra di vivere la vita contro tempo. Sento che alcune cose mi sfuggono di mano, mentre altre si presentano senza che le abbia viste arrivare. Ma ho fatto ormai da tempo pace con il fatto che le situazioni a volte si possono solo navigare. Il controllo in questi casi è un'illusione, per cui procedo così come riesco, fuori ritmo, con la stessa grazia di Alice che cade nella tana del Bianconiglio.
La scorsa settimana sono andata anche dal fisioterapista a farmi trattare una spalla e, tra una chiacchiera e l'altra, siamo finiti a parlare di contratture. Esiste questa disciplina, la psicofisiologia, che collega processi psicologici e biologici, cercando di studiare il "sistema" nel suo insieme e in interazione con l'ambiente che lo circonda.
Detta in poche parole il cervello "mappa" il corpo attraverso il movimento. Più usiamo una parte del nostro corpo, più dettagliata sarà la sua rappresentazione nella corteccia somatosensoriale, migliorando di conseguenza la precisione dei movimenti, la percezione del corpo nello spazio e la sensazione di "esserci" per davvero, di avere un contatto con quello che ci sta intorno.
Fare movimento, di qualsiasi tipo, fa stare bene non solo per un discorso di endorfine (che tanto si rilasciano anche in altre situazioni dove non c'è da fare fatica, tipo guardando un film che ci piace) ma in quanto aiuta a mantenere questa connessione mente-corpo, andando a influire sulla percezione che abbiamo di noi stess* e delle cose che succedono intorno a noi.
D'altro canto, quando un muscolo smette di muoversi per un certo periodo di tempo, il cervello tende un po' a dimenticarsi di quella parte. Può capitare perché dobbiamo tenere un braccio o una gamba immobilizzati per un po', ma anche nel caso di piccole contratture profonde che sono lì da chissà quanto. L'attività fisica allora può diventare un inferno, perché di colpo la mente si ritrova a ricevere un flusso inaspettato di informazioni (spesso non piacevoli).
Fotografare è fare movimento. Può essere più o meno impegnativo, ma sta di fatto che ogni volta che scattiamo una fotografia coinvolgiamo anche il nostro corpo, non si tratta solo di un esercizio mentale.
Come scrivevo a inizio anno, sto ritornando a fotografare con più frequenza dopo un lungo periodo passato perlopiù a studiare e osservare. Non so se vi è mai capitato di riprendere a fare un'attività fisica che praticavate molto dopo un periodo lungo di stop. Ecco, la situazione ora per me è un po' questa. Sono stata per così tanto tempo "in ritiro" nella mia testa che ho perso un po' la percezione di quello che i miei "muscoli della fotografia" riescono o non riescono a fare. So che con un po' di attività riuscirò a ritrovare il ritmo (non è una cosa che posso dimenticare così facilmente) ma, per il momento, accetto la goffaggine senza troppe aspettative.
Il movimento si svolge nel tempo e, il tempo è anche una delle "tre dimensioni di base" dell'esposizione in fotografia, insieme a diaframma e ISO. Confesso di non averlo mai considerato più di tanto, se non in funzione di quanto movimento volevo mettere (o evitare) in una fotografia. È un po' il modo in cui la velocità dell'otturatore viene spiegata nei manuali di base di fotografia e non sembra esserci molto altro da dire.
Il tempo è qualcosa che scorre, una dimensione fisica uguale per tutti, che possiamo misurare in ore, minuti e secondi. Senza addentrarci troppo in relatività e quanti possiamo dire che sì, il tempo è così.
Ma non è solo questo. O, più semplicemente, non è.
Il tempo come lo intendiamo in genere è quella cosa che misura l'orologio, è una descrizione che facciamo osservando il movimento delle cose le une rispetto le altre (il sole rispetto all'orizzonte, le stelle nel cielo, gli ingranaggi di un orologio).
Nella nostra quotidianità il tempo serve per darci un riferimento, per organizzarci, ma anche per dare un senso di continuità e unità alle nostre esperienze. Ma è una dimensione che abbiamo costruito noi perché, in realtà, nell'universo, quel tempo non esiste.
«Il mondo è fatto di eventi, non di cose». Carlo Rovelli, L’ordine del tempo. Adelphi, 2017.
Da qui ho cominciato a chiedermi se, anche nell'universo della fotografia, il tempo fosse qualcosa in più del regolare esposizione e movimento. Se avesse un ruolo che va oltre all'effetto mosso o al congelare un soggetto. Che già solo questo, se ci pensiamo, ha qualcosa di straordinario. Noi non vediamo il movimento così come lo registra la macchina fotografica, con tempi lunghi e scie.
Allo stesso modo, di norma non vediamo le cose congelate a mezz'aria. Il tempo fissa quello che sta davanti alla macchina fotografica, il flusso del vivente, in una forma statica. E quando non abbiamo accesso al riferimento, o a rappresentazioni alternative, tutto quello che possiamo vedere di una certa cosa, luogo o persona è quella forma lì, un'immagine.
In Lezione di fotografia Stephen Shore parla del tempo come una delle quattro dimensioni del piano descrittivo di un'immagine sulle quali chi fotografa può agire per "scegliere un'immagine" davanti al disordine della realtà che si trova di fronte.
«Chi dice "cheese" mentre un fotografo lo ritrae ammette inconsciamente che il tempo viene trasformato dalla fotografia. Un'immagine fotografica è statica, mentre la realtà scorre nel tempo. Quando questo flusso viene interrotto da una fotografia, si scopre un nuovo significato, quello fotografico. La realtà è una persona che dice "cheese". La macchina fotografica, che riporta una testimonianza muta, ritrae una persona che sorride - forse un sorriso vuoto, superficiale, come quello in un annuario o a una cerimonia di inaugurazione, ma comunque un sorriso. Dite invece "crackers" e la macchina fotografica vedrà un sogghigno.» Stephen Shore, Lezione di fotografia. La natura delle fotografie. Phaidon, 2009.
La nozione di fotografia come traccia del suo referente nasce insieme alla fotografia stessa.
«In 1857, Lady Eastlake declared the medium’s “unerring records in the service of mechanics, engineering, geology, and natural history” to be “facts of the most sterling and stubborn kind,” and therefore “the sworn witness of everything presented to [its] view.” And since “every form that is traced by light is the impress of one moment, or one hour” in the “great passage of time,” [...] photography also “give[s]” us our child’s “shoes” or his “inseparable toy” with a “strength of identity that art does not even seek.”» Kaja Silverman, The Miracle of Analogy. Stanford University Press, edizione Kindle.
Ma, quando guardiamo una fotografia, raramente ci concentriamo solo sull'istante che è stato catturato. Così come quando fotografiamo non scegliamo un momento tra i tanti solo per comodità o fortuna. Anche se può capitare, a volte, ma nel momento in cui scattiamo quel fotogramma lì diventa qualcosa di più di una frazione di qualche secondo o più. Aggiungiamo la narrazione, la memoria e l'identità. Il tempo fotografico si lega a questi ultimi aspetti che non appartengono al tempo oggettivo, a quello misurato dall'orologio, ma fanno parte del tempo che "sta fuori", quello che appartiene, e costruisce, la mia storia.
Nel saggio La quarta rivoluzione Luciano Floridi guarda alle persone come esseri informazionali, definite non solo da come "sono" a livello biologico o sociale, ma anche da tutti i flussi di informazione interni ed esterni che le attraversano. Negli ultimi decenni le ICT hanno potenziato in maniera esponenziale la generazione e il movimento di questi flussi, sui quali e con i quali noi costruiamo la nostra identità, anche quando non ce ne rendiamo conto.
«Lo sfondo del discorso è costituito dalla consapevolezza che tanto la maturazione psicologica che lo sviluppo di processi biologici sono il risultato della "storia" dell'individuo [...].» Vezio Ruggieri, Mente, corpo, malattia. Il Pensiero Scientifico, 1999.
In una maniera simile, qualche anno prima, Jerome S. Bruner sottolineava l'importanza della narrazione nello sviluppo dell'identità. Tutta questa storia si svolge in un tempo personale, psicologico, che può "fasarsi" in qualche punto con il tempo dell'orologio, ma che si svolge perlopiù in un universo a parte, o forse sarebbe meglio dire addirittura creando un proprio spazio, man mano che gli eventi entrano in relazione tra loro.
«Through art alone are we able to emerge from ourselves, to know what another person sees of a universe which is not the same as our own and of which, without art, the landscapes would remain as unknown to us as those that may exist on the moon. Thanks to art, instead of seeing one world only, our own, we see that world multiply itself and we have at our disposal as many worlds as there are original artists, worlds more different one from the other than those which revolve in infinite space, worlds which, centuries after the extinction of the fire from which their light first emanated, whether it is called Rembrandt or Vermeer, send us still each one its special radiance.» Marcel Proust, In Search of Lost Time. Edizione Kindle, 2018.
Pensarci in tutti i possibili universi e tempi di quello che potrebbe o non potrebbe essere è un'esperienza spiazzante, più di un viaggio nel Paese delle Meraviglie attraverso la tana del Bianconiglio, ma forse meno del cercare di leggere le equazioni senza tempo di Rovelli.
La fotografia, attraverso il tempo, seleziona ed evidenzia alcuni istanti che diventano parte di una narrazione. Lineare o meno non importa, quello che conta è la formazione di un universo che, per quanto bizzarro, possieda una struttura sufficiente da fornirci degli agganci per orientarci, per capire chi sono, dove vado e cosa ci faccio qui. Sia che produciamo o che la osserviamo, la fotografia ha il potere di incastonarci "in un tempo", di farci trovare il nostro posto in relazione con qualcos'altro. Ci aiuta a capire che, come fotograf*, non esistiamo solo nello spazio assoluto della nostra testa. Anche se, nel farlo, ci coglie scoordinat* e contro tempo. O, almeno, questo è il mio caso, mentre ritorno ad allenare i "muscoli della fotografia".
«E così egli improvvisamente si chiede: “che ora è?”. Il tempo che è memoria, pensiero, progetto, una realtà propriamente umana, non lo salverà forse da questa deriva, ancorandolo a una realtà? Tutto quel che gli resta da sperare si trova ormai in questo punto fuori dallo spazio, il suo orologio [...] È naturale che sia il tempo ad aiutarlo a liberarsi di questo spazio senza vita per il quale persino il cielo stellato gli appare nero, “più profondamente nero” della città.» Yves Bonnefoy, Poesia e fotografia. O Barra O Edizioni, 2015.