#4.3 Empatia

Tu e io, con in mezzo la fotografia.

#4.3 Empatia
Fonte: europeana.eu.

Ciao a tutti i nuovi membri di Making Pictures! C’è stato un po’ di movimento da queste parti nelle ultime settimane, spero riusciate a orientarvi, nonostante gli errori che sbucano ancora ogni tanto dopo tre mesi dalla migrazione dalla vecchia piattaforma.

Vi ricordo che, oltre a ricevere la newsletter, potete leggere tutti i post, anche quelli più vecchi, sul sito.

Making Pictures
Il fattore umano all’interno del processo fotografico: saggi mensili sulla mente e sulla pratica imprevedibile e sorprendente del fotografare.

A proposito: nei giorni scorsi mi sono accorta che alcuni articoli del 2022 non erano accessibili per un errore di permessi, ora risolto. Piano piano sistemerò tutto 😄 Se notate qualcosa di strano, scrivetemi a info@florianariccio.com.

Per tenere separate meglio le versioni italiana e inglese, ho creato due newsletter diverse che troverete nel profilo. Vedrete attiva solo la voce relativa all’edizione che avete sottoscritto, ma nulla vi vieta di seguire entrambe.

Nei prossimi mesi cambierò anche un pochino il tema e la home del sito, ma procedo con una modifica alla volta.

Ultimo, ma non meno importante: grazie anche a chi ha deciso di contribuire a Making Pictures acquistando la copia stampata 2023! Ecco qui qualche foto che avete condiviso, visto che ho esaurito tutte le copie che avevo preparato prima di fotografarle 🙂

Ho intenzione di stamparne ancora qualcosa per il mio archivio, se ve la siete persa siete persa questa è l'ultima occasione: contattatemi su info@florianariccio.com entro il 10/04/2024 e vi manderò tutti i dettagli. Il contributo per la copia è di 40€, spese di spedizione in Italia incluse.

E con questo, mettiamo un punto alle comunicazioni di servizio!


Questo mese sono stata in un po’ di posti a lavorare sulle fotografie che dovrebbe affiancare la tesi. Tesi che non ha un titolo ed è ancora una raccolta di brandelli, ma tant’è…ci sto lavorando. Per quanto riguarda la componente fotografica, invece, al momento è più una ricerca visiva che un progetto. Non c’è un programma, non c’è una struttura, non c’è nemmeno un’ “intenzione estetica” precisa, se così possiamo chiamarla. Tutto voluto, non è solo un approccio alla carlona. Ho delle idee dentro un tema, cerco dei soggetti, faccio delle prove. Poi guardo le fotografie, mi faccio domande, non trovo risposte. E allora faccio un passo indietro, esplorando quello che c’è a monte di quelle domande, tirando fuori nuovi dubbi che mi aiutano a ragionare e a prendere decisioni. Anche su cose pratiche, tipo quale lente usare. Anzi, direi che sono soprattutto pratiche: alla fine della giornata per me tutto si risolve con questa interazione tra idee e strumenti, teoria e pratica, che non si escludono mai a vicenda.

«Il primo mito da sfatare riguardo alla “teoria” è l’idea che possiamo farne a meno. Non esiste un modo che non sia teorico di vedere la fotografia. Anche se alcuni considerano la teoria come lo sforzo di interpretare saggi complicati scritti da intellettuali europei, in realtà ogni pratica presuppone una teoria.
[…]
Alcune teorie possono risultare complesse, ma anche il pattinaggio su ghiaccio lo è, per un principiante. Come ogni cosa, la teoria si semplifica praticandola; ugualmente, anche i nuovi termini e i concetti che appartengono inevitabilmente a quella disciplina diventano, nella pratica, più semplici.
[…]
Abbiamo bisogno della teoria quando ci troviamo di fronte a un problema e le nostre nozioni non ci permettono di affrontarlo».
David Bate, Il primo libro di fotografia.

Credo sia un po’ il bello di tutto questo lavoro: non tanto riuscire a completare qualcosa entro una certa data, ma poter giocare, costruendo intanto le regole del proprio gioco. Non sarà così per sempre, è una bolla di spazio tempo che mi sto regalando per pensare e fare. E per mettere insieme una “cassetta degli attrezzi” per il futuro.

Uno degli “strumenti” che sto studiando in queste settimane è l’empatia. Parola di origine greca, indicava il legame di partecipazione emotiva tra pubblico e cantore durante gli spettacoli teatrali.

In generale oggi si definisce come la capacità di mettersi nei panni di un’altra persona, di identificarsi con essa, comprendendo stati d’animo, situazioni emotive e vissuti. Magari sperimentandoli anche come propri, spesso senza che ci sia bisogno di parlare. L’empatia è spesso descritta come fondamento dei comportamenti pro sociali e nei contesti di aiuto (anche se il solo fatto di provare una forte empatia non è sufficiente a mettere comportamenti di aiuto efficaci, ma lo vedremo dopo).

Da un po’ di anni a questa parte l’empatia è diventata uno degli argomenti più studiati dalla psicologia, dalle scienze cognitive e sociali, neuroscienze e via discorrendo. Si è passati da guardare l’individuo come “un’entità” a sé stante con tutta una serie strutture e processi, bisogni e motivazioni, potenzialità e limiti, all’individuo nella relazione, come relazione, in rapporto con un generico “altro”. Sto semplificando il discorso, perché altrimenti qui potremmo prendere la deriva in ogni direzione possibile: dal punto di vista biologico e neurologico, sociale, psicologico, ma anche filosofico ed estetico. Infatti il termine empatia è arrivato a noi attraverso la riflessione estetica tedesca di fine XIX secolo, come capacità di proiettare il proprio “senso vitale” verso un oggetto, generando un certo tipo di percezione ed esperienza.

«Il concetto di empatia nasce sul terreno dell’estetica grazie allo storico e filosofo dell’arte Robert Vischer che, nel 1873, utilizza per la prima volta il termine Einfühlung, riferendosi alla tendenza di un osservatore a proiettare i propri stati emotivi sull’oggetto osservato. Il primo a trasferire il concetto di “empatia” sul piano della relazione intersoggettiva fu Theodor Lipps, che sostituì al concetto di proiezione quello di “partecipazione emotiva” resa possibile da una sorta di “imitazione interna” (innere Nachahmung) dei movimenti dell’altro». Ripensando l’empatia. Tra etica ed estetica. Bollettino Filosofico XXXVII, 2022.

Detto tutto questo, potremmo dire che l’empatia è la capacità di entrare in relazione, in una dimensione intersoggettiva nella quale ci sono io e ci sei tu, e la chiudiamo qui. Nel senso comune, il termine empatia ha una sfumatura positiva: è associata al buon funzionamento sociale, a competenze interpersonali che permettono di comprendere le persone che ci stanno intorno, di avere interazioni spesso positive e soddisfacenti. L’empatia è una di quelle qualità premiate in molti contesti sociali.

E fino a qui, ci siamo più o meno tutt*, credo.

Bene. Ora dimentichiamoci per un attimo della valutazione positiva dell’empatia, di tutto il discorso di Brené Brown sulla comprensione e sull’aiuto, non ci serve nel discorso che voglio fare. Anzi, questo tipo di valutazione, qui, diventa pure d’impiccio.

Partiamo da questo punto: la fotografia è relazione. Ci sono io con la mia macchina fotografica che cerco in qualche modo di entrare in connessione con te, che sei diverso da me, per far diventare questo “incontro” un’immagine. Da questo punto di vista possiamo dire che la fotografia è empatia.

Nicholas Nixon, Tom Moran, East Braintree. Massachusetts, 1987. Fonte: fraenkelgallery.com.

La relazione può anche non essere un’interazione piacevole per una, o entrambe, le parti (per questo ho voluto togliere dal discorso il contesto dell’aiuto.

«Then I stepped toward him and, without premeditation, but ever so respectfully, I said, “Forgive me, sir”, and plucked the cigar out of his mouth. By the time I got back to my camera, he looked so belligerent he could have devoured me. It was at that instant that I took the photograph». Yousuf Karsh, Winston Churchill, 1941. Fonte: karsh.org.
Toni Thorimbert, Giorgio Armani, Milano, 1995. Fonte: tonithorinbert.blogspot.com.

Il “tu” non deve necessariamente essere un essere vivente.

Andrea Modica, Still life. Fonte: andreamodica.com.
Luigi Ghirri, Topografia-Iconografia, Ferrara, 1981. Fonte: archivioluigighirri.com.

Può essere un incontro organizzato e costruito, così come un attimo che sfugge.

Suzanne Opton, Many Wars. Fonte: suzanneopton.com.
Richard Billingham, Ray’s a Laugh. Fonte: saatchigallery.com.

Il “tu”, può essere anche una dimensione…

Yoshi Kametani, I'll be late, Void, 2024. Fonte: micamera.com.

…una comunità…

Hoda Afshar, Speak the wind, 2015-2020. Fonte: hodaafshar.com.

…e persino una parte di noi che diventa un “soggetto diverso” nel momento in cui noi la facciamo diventare oggetto del nostro sguardo.

Ziqianqian, Chair. Fonte: ziqianqian.net.
Talia Chetrit, Joke. Fonte: photobookstore.co.uk.

Potremmo inserire ancora tanti esempi. Fotografia è empatia, è vero, ma questa affermazione crea una base di partenza troppo ampia. Quasi ci potrebbe portare a dire che tutta la fotografia è empatia, nel senso di relazione, ma l’esperienza spesso ci dimostra il contrario.

Penso abbiamo tutt* in mente fotografie che non emanano nemmeno un briciolo di empatia. Tutte le immagini stereotipate, tutte le fotografie dove il soggetto sembra essere lì un po’ per caso, o forse no, non si capisce bene, non c’è un minimo di azione di fuoco, luce, inquadratura, dettaglio che possano aiutare l’attenzione. C’è solo qualcun* dietro alla macchina fotografica che ha forzato la propria idea nell’immagine cercando di domare la realtà a proprio gusto. Più che empatia si cade nella manipolazione un po’ goffa.

Qualche volta scatto immagini di questo tipo, a volte me ne rendo conto mentre lo faccio, altre volte me ne accorgo dopo. Si tratta di materiale che rimane per me, che mi guardo almeno un pochino. Mi aiutano a riflettere su come mi sto muovendo. È come avere un feedback visivo sulla relazione che ho provato ad instaurare con il soggetto che ho fotografato, ed è molto utile, perché spesso non posso chiederlo direttamente, nemmeno alle persone.

Durante questo mese ho portato a casa un po’ di foto così, senza empatia, piatte, diciamo. Alcune mi sono proprie indifferenti. Altre faccio un po’ fatica a studiarle perché nel fotografare la vulnerabilità, l’ambivalenza di certe esperienze, vorrei che le immagini si portassero dentro un briciolo di carica emotiva, ma senza cadere nel tranello del sensazionalismo. E invece produco fotografie vuote. Forse di peggio di una brutta narrazione c’è solo una narrazione indifferente. È la fine di ogni esperienza.

«Si vocifera che qualunque considerazione sul dolore nidifichi nella sua fenomenologia, ma la fenomenologia di solito si interrompe in una modesta scheggia di pena disponibile dichiarandola completa e universale. Così “il mio corpo” si trasforma ne “il corpo”. L’afflizione emotiva invade la fisicità, come se non fosse il contrario, come se non fosse il dolore nelle nostre carni o la sua assenza a determinare che tipo di giornata o ora o minuto stiamo vivendo, se stiamo o no lavorando, se stiamo o no respirando o dormendo o amando. Poi l’astratto già manifesto si allontana fluttuando verso un’ulteriore astrazione, come una particella di polvere prestata a un discorso fatto di polvere». Anne Boyer, Non morire.

So che è una fase, che fa parte del lavoro, perciò non mi preoccupo più di tanto. Ma parlarne mi aiuta a introdurre una seconda componente dell’empatia: la connessione emotiva.

Fonte: magnumphotos.com

Ci sono alcuni termini che da diversi settori, ma anche dal senso comune, entrano nel mondo della fotografia e ci mettono le radici: resilienza, empatia, narrativa. La fotografia è un ottimo terreno fertile per molte esplorazioni. Ma sono convinta che, alcune volte, questi termini vengano presi e applicati un po’ a scatola chiusa con il rischio di diventare pesanti, oppure troppo astratti, usati ogni tanto così, giusto perché suonano bene. Mentre invece trovo un sacco interessante smontarli, cercare di capire quali significati e quale valore si portano dietro per me, per te, per le immagini.

E quindi, cosa possiamo dire dell’empatia?

Molte cose.

Spesso i fenomeni che si studiano in psicologia non sono direttamente osservabili, come se fossero dimensioni fisiche, come il peso e l’altezza. Per questo, chi studia, deve prima crearsi delle definizioni e delle teorie (da zero, facendo ipotesi, o partendo da osservazioni precedenti) per guidare la ricerca e le misurazioni successive. Questo significa che non c’è quasi mai una spiegazione unica e generale, ma ogni fenomeno può essere descritto da diverse teorie e definizioni, che non necessariamente si escludono l’un l’altra, anzi! Spesso lavorano insieme, arricchendo la visione che abbiamo di quel fenomeno.

Si può coltivare l’empatia attraverso la fotografia? Sono abbastanza empatic* per questo o quel soggetto? L’empatia si può allenare? Se non sento nessun coinvolgimento emotivo con quello che sto fotografando allora non sarò capace di scattare immagini abbastanza buone? Sapere che l’empatia è una qualche capacità di relazione, legata magari anche ad un’esperienza emotiva, non ci basta a rispondere a queste domande. È una definizione troppo generale che non attraversa tutta la complessità della questione.

Ci sono studi che analizzano l’empatia dal punto di vista biologico, guardando ai circuiti neurali che si attivano nel cervello quando assistiamo a una certa situazione (per brevità possiamo dire che sono tutto il filone di studi sui neuroni a specchio).

C’è chi descrive l’empatia come una grandezza da zero a un certo tot, implicando l’esistenza di un circuito che può funzionare più o meno bene. Il che significa, in soldoni, che esistono individui predisposti all’empatia e altri, invece, che vivono con un grado di empatia pari a zero. Questo modo di ragionare corre su di un confine insidiosissimo. Primo perché tende a ignorare tutti i fattori situazionali e le pressioni sociali, secondo perché porta a catalogare le persone in tassonomie abbastanza rigide basate su di un deficit (per cui chi non ha un certo tipo di empatia, non è “normale”, statisticamente parlando).

Simon Baron-Cohen, La scienza del male. L’empatia e le origini della crudeltà.

C’è chi, infine, pensa che l’empatia sia una capacità che si esprime in vari modi, un fenomeno complesso che non si può descrivere solo dal punto di vista neurologico, del comportamento, o in termini di risposta emotiva.

Uno dei modelli che ho trovato più interessanti è il modello Davis (1983), che descrive l’empatia in maniera multidimensionale considerando sia la componente cognitiva che quella emotiva: la prima come processo di rappresentazione di pensieri, intenzioni e situazioni; la seconda come processo di attivazione.

Secondo Davis l’empatia si potrebbe descrivere come il gioco di quattro sotto-dimensioni: Perspective Taking e Fantasy per le abilità cognitive, Empathic Concern e Personal Distress per la dimensione emotiva.

Alsager Alzayed M., Miller S.R., McComb C., Empathic creativity: can trait empathy predict creative concept generation and selection? Artificial Intelligence for Engineering Design, Analysis and Manufacturing, 2021.

Senza scendere troppo nei dettagli, con Perspective Taking si intende la capacità di “mettersi nei panni degli altri”, di capire punti di vista diversi dal nostro, anche senza condividerli. La dimensione Fantasy cerca di raccogliere le tendenza a lasciarsi coinvolgere in narrative letterarie, cinema o media, nell’immedesimarsi con personaggi di fantasia.

Wayne Miller, David in robot costume, Olinda, California, 1956. Fonte: magnumphotos.com.

Trovare Fantasy tra le dimensioni di uno studio scientifico può sembrare strano, ma nel caso dell’empatia ha più che senso perché è legata alla capacità di immaginazione e al pensiero individuale. Alla creatività, se vogliamo, ma soprattutto alla capacità di guardare e sentire oltre la superficie. Fa tutto parte dell’esperienza umana, no?

«Landscape Stories: In a better world, what part might art play? Why art is important for you?
Tim Carpenter: I almost see this working backwards: a better world might be the result of art playing just the role it does now, except that its effect must be far more widespread. Which role is the reason that art important to me.
It’s said that readers of novels are better at imagining the interior lives of others, and thus tend to be more empathetic. I think that engagement with other forms of art can as well effect an “unselfing” that is antithetical to political ideologies and allows us to more easily see the basic humanity in every other person (the very same that resides in each of us). When that’s the case, it’s clearer that we’re not in some zero-sum game in which others must lose so that we can win»
. Tim Carpenter, Local Places and Particular Objects. Landscape Stories, 2018.
Tim Carpenter, The king of birds, 2017. Fonte: landscapestories.net.

Empathic Concern e Personal Distress, invece, fanno parte dell’esperienza emotiva dell’empatia. Di quel gruppo di sensazioni che possiamo provare in certe situazioni e che ci possono far sentire profondamente connessi con quello che abbiamo di fronte. Il che può essere vero per tutte le parti coinvolte nell’interazione, così come un’esperienza puramente soggettiva. Provare una forte emozione non implica l’aver stabilito una relazione, anzi può addirittura ostacolarla. Dico questo non per mettere al bando le emozioni, ma per ridimensionare un po’ la concezione strettamente emotiva dell’empatia, che è abbastanza diffusa, ma che talvolta può rivelarsi un fenomeno totalmente ego-riferito.

Empathic Concern indica i sentimenti di partecipazione, affetto e preoccupazione orientati genericamente verso gli altri. È una componente che può essere influenzata dalla cultura e dalla società: ci possono essere infatti sfumature diverse di empatia quando ci rivolgiamo a persone del nostro stesso gruppo sociale piuttosto che a individui del tutto distanti da noi. Ci sono dati che riportano valori più alti di Empathic Concern nelle femmine, piuttosto che nei maschi, all’interno delle società che incentivano determinati ruoli di genere (rivolti alla cura della famiglia, per esempio).

Kawita Vatanajyankur, My body as a domestic object. My Mother and I (Vacuum III), 2021. Fonte: slficaa.artgallery.wa.gov.au.

Il Personal Distress, infine, indica tutto quello che riguarda la vulnerabilità e l’attivazione emotiva, timore o paura in situazioni stressanti o negative. Il Personal Distress può interferire con la decisione di attivare comportamenti di aiuto rivolti verso gli altri in caso di bisogno, attraverso processi di disimpegno morale. È una sorta di “istinto di autoconservazione”: se mi trovo in forte disagio vivendo o assistendo a una certa situazione, quello che sento io diventa la cosa più importante. Tutto il resto può scomparire, e si salvi chi può. Altro che relazione ed empatia! Contano solo le mie emozioni, i miei obiettivi, le mie idee, il mio sollievo. Molti atti di aiuto vengono messi in atto più per “alleggerirsi l’anima” che per un vero interesse per la persona, o la situazione, in difficoltà. Maggiore coinvolgimento emotivo non equivale a maggiore empatia.

Imparare a guardare l’empatia non come una capacità unica, ma nelle sue varie dimensioni per me è stata una piccola rivoluzione: mette a disposizione una gamma molto più ampia di strategie e opportunità per affrontare fotograficamente la complessità della realtà. Non è più una questione di “sarò all’altezza?”, “questa cosa non me la sento, quell’altra la sento tantissimo ma non riesco a fotografarla”, “non sono abbastanza sensibile”, e via dicendo.

È esattamente come esporre una fotografia: posso regolare diaframmi, tempi e ISO per ottenere quello che voglio. Non c’è una combinazione giusta, ma ce ne sono diverse equivalenti che mi permettono anche di inserire delle sfumature visive della realtà che ho di fronte (più o meno profondità di campo, o mosso, o una grana di pellicola….). Mi permettono di esprimermi nella relazione.

Posso essere una persona estremamente emotiva, magari molto a disagio nel fotografare un certo tipo di persona o situazione, ma questo non vuol dire che io debba gettare la spugna, o sforzarmi di sopprimermi o falsificarmi per “funzionare bene”. Questo perché, almeno nel modello di Davis, ci sono altri tre parametri che entrano in gioco nella situazione, dei talenti che posso mettere in campo quando voglio cercare una relazione con quello che mi sta davanti. Posso essere estremamente emotiva, ma magari sono anche molto brava a considerare diversi punti di vista, oppure ho una fantasia sfrenata che mi permette di pensare fuori dagli schemi.

Quello che voglio dire, per concludere, è che la visione nel senso comune dell’empatia come qualcosa che io ho/non ho, tu hai/non hai, è un pensiero che taglia drasticamente tutte la complessità delle relazioni (anche considerando tutto lo spettro di sfumature e gradi di empatia possibili), riducendo moltissimo le possibilità. E ogni possibilità di cui ci priviamo è una fotografia “diversa”, originale, unica alla quale rinunciamo.

Una delle visioni “classiche” dell’intersoggettività è questa:

Ci sono io, ci sei tu (inteso anche come persona, essere vivente oppure oggetto inanimato, un generico “altro-diverso-da-me”). Ci incontriamo a metà e ognuno di noi porta qualcosa nella relazione. Abbiamo dei confini definiti, si creeranno magari delle dinamiche di potere, ma alla fine della giornata rimaniamo sempre due entità separate che creano una sorta di “canale” per comunicare attraverso una relazione. Questo modo di vedere le cose ha delle implicazioni culturali e politiche molto interessanti, sulle quali ho un paio di cose da dire, ma me lo tengo come argomento per la prossima volta.

Ci sono io, ci sei tu, c’è una macchina fotografia di mezzo. Click. La nostra relazione è un “oggetto” che finisce in una fotografia.

C’è poi un altro tipo di pensiero, un po’ più radicale. Buttarlo qui adesso è forse un po’ azzardato, perché dovremmo poi parlare meglio di identità. Spero non risulti indigesto.

Dai, lo mettiamo sul tavolo e ce lo teniamo per la newsletter di aprile.

Ci sono io, ci sei tu. Ma in quanto sistemi aperti e complessi non esistono confini così netti a separarci. Ce li costruiamo e ce li impongono, a volte sono utili, altre volte disfunzionali. Ma sta di fatto che possiamo immaginarci anche come entità permeabili e indeterminate. Come nuvole di particelle che, quando si toccano, si mischiano e diventano una cosa nuova. Questa cosa nuova è la relazione, è la fotografia. L’intersoggettività così intesa è un continuo movimento, un dialogo che va in tutte le direzioni.

Il discorso è tutto dinamico. L’empatia non è una caratteristica fissa e immutabile, ma può essere vista anche come un processo (così come ormai, da tempo, si è capito dell’intelligenza). Gli esseri umani, così come il mondo in generale, sono sistemi complessi e aperti, non macchine che seguono programmi complicati e percorsi predeterminati.

Detto tutto questo io torno a guardare le foto che ho scattato questo mese, quelle piatte e vuote. Confesso che non tutto quello che scrivo, soprattutto questa ultima parte, mi aiuta ad essere più lucida in quello che sto facendo, o in cosa fare per migliorare le fotografie. Molti dei temi che tratto sono talmente complessi che mi permetto il lusso di rimanere confusa. Ma, in fondo, credo che il punto qui non sia tanto raggiungere la chiarezza mentale e d’azione, quanto allenarmi a tirare i vari fili di un discorso, a rimescolare i punti di vista, vedere cosa succede quando due nebulose si incontrano, far scontrare le particelle fino a quando boom, dall’esplosione non nascerà un nuovo universo. E allora click, forse nascerà anche una nuova immagine.

«“I can’t imagine what you’re going through”. She would respond, “Yes, you can imagine it. You just don’t want to”». Ariella Azoulay in Sarah Sentilles, How We Should Respond to Photographs of Suffering, 2017.